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Putin e i suoi alfieri. Borghi (Pd) sulle affinità sovraniste (italiane)

Il sovranismo ha perso, ma non è vinto. Da Mosca a Visegrad, la sfida all’ordine liberale e all’Unione europea è ancora viva e vegeta, come dimostra l’intervento di Putin al Valdai Club. E anche in Italia trova ampia eco. Il commento di Enrico Borghi, parlamentare e responsabile sicurezza Pd e componente Copasir

Il sovranismo ha perso, ma non è vinto. Potremmo sintetizzare così il momento che stiamo attraversando, e gli alert che da qualche parte emergono (l’ultimo in ordine di tempo quello giunto da Fiona Hill nel dibattito lanciato da Formiche) sembrano confermarlo.

Certo, la risposta globale al fenomeno dell’ondata sovranista è stata avviata ed è in atto. Dopo l’ondata 2016-2018 che ha visto, con il Cremlino a fare da sfondo con la sua teoria del superamento dell’ordine liberale, svilupparsi dapprima la Brexit e poi la vittoria di Trump, l’affermazione di Bolsonaro, il radicamento del sovranismo nei paesi di Visegrad, la nascita del governo populista giallo-verde e poi il rafforzamento della Lega di Salvini che giunse a sfiorare il 40% del consenso popolare nell’estate 2019, si sono sviluppati una serie di anticorpi sul piano globale.

La vittoria del Psoe di Sanchez nell’autunno 2019 in Spagna (dopo 4 elezioni politiche in 4 anni), il successo fondamentale di Joe Biden nel novembre 2020, il voto tedesco di poche settimane fa che ha fermato l’ondata di crescita dell’estrema destra di Alternative fur Deutschland e che ha riportato i socialdemocratici al cancellierato, fino alla vittoria del centrosinistra a trazione Pd nel voto delle principali metropoli italiane ci dicono che il sovranismo sta segnando il passo.

Ma attenzione a considerarlo finito. Il potente mastice ideologico che lo ha fatto germinare e fiorire è ancora in campo, ed è stato plasticamente rappresentato pochi giorni fa da Vladimir Putin nel suo consueto scenario del “Valdai Club”. Riprendendo i concetti della famosa intervista al “Financial Times” del 1° luglio 2019, alla vigilia di un altro G20, quello di Osaka, Putin è tornato a picchiare duro sul concetto della arcaicità e desuetudine del sistemi liberal-democratici, facendo emergere su un tema come quello dell’omosessualità e del gender la concezione ultra-ortodossa dell’azione ideologica della presidenza russa.

L’idea, rilanciata con forza, è quella che il multiculturalismo sia “insensato” e che la politica di uguaglianza e di riconoscimento dei diritti condotta dall’Unione Europea in materia di minoranze sia uno schiaffo alle tradizioni e ai valori familiari tradizionali. Oltre che sintomo di una decadenza irreversibile.

Per una singolare coincidenza (sempre che lo sia stata!), pochi giorni dopo l’intemerata putiniana, nel Senato italiano è andata in scena – sul tema della legge contro i crimini d’odio e le discriminazioni contro omosessuali, transessuali, donne e disabili – una delle pagine di maggiore affinità politica tra la destra italiana e la dottrina “tradizionalista” di Putin.

Pensare che il sovranismo sia complemento di arredo di una stagione archiviata può essere, quindi, un pericoloso abbaglio. Come dimostra la Francia, il populismo è multiforme, cangiante e proteiforme, e oggi assume le forme di un comico (ricorda qualcosa?) che si candida all’Eliseo e che secondo i sondaggi ha già scavalcato a destra la Le Pen e si appresta ad arrivare al ballottaggio contro Macron, in una nuova piece del braccio di ferro tra riformismo e populismo.

Il voto francese nel 2022 e il voto italiano nel 2023 saranno il banco di prova tra sovranismo populista ed europeismo riformista. E oggi sul campo vi sono circostanze internazionali, sociali e economiche che potrebbero congiurare -a seconda degli sbocchi che la politica imprimerà alla direzione di marcia- per un ritorno di fiamma sovranista.

In Africa, tra il Sahel, il Sudan, il Corno d’Africa e la Libia c’è una autentica cisterna sotto pressione, nella quale scorrazzano per inciso i contractor russi della Brigata Wagner e gli ingegneri cinesi alla ricerca di terre rare, con il rischio -se l’Occidente continuerà nella sua ignavia- di trasformare il Mediterraneo in un pericoloso incubatore di tensioni fortissime. Ad iniziare dalla vicenda migratoria, naturale terreno di crescita delle reazioni sovraniste e nazionaliste.

Sul piano sociale, la crisi delle infrastrutture sociali e dei corpi intermedi rischia di spalancare -complice la pandemia- per milioni di Italiani la porta della solitudine e dell’angoscia, che è sempre un terreno di coltura ideale per la fascinazione dell’uomo forte e della reazione contro i diversi.

Sul piano economico, la crisi sanitaria ha acuito la forbice delle diseguaglianze, invertendo anche alcuni consolidati clichè (si pensi alla tensione latente tra il pubblico impiego garantito e le partite iva piegate dal crollo dei fatturati),e se la politica dei redditi di Draghi dovesse -Dio non voglia!- fallire la propria azione, vi è il rischio di aprire ad uno scenario pericolosissimo, e cioè quello della crescita contemporanea del prodotto interno lordo e dell’allargamento della forbice tra chi ha e chi non ha.

Ecco perchè la partita non è chiusa. E perché ha ragione chi sostiene che l’Italia è ancora un paese “target” per la politica putiniana. I prossimi mesi (a iniziare dalla cruciale battaglia per il Quirinale) saranno decisivi per collocare l’Italia su un crinale, quello dell’europeismo riformista, o su un altro, quello del radicamento nella logica di Visegrad del BelPaese.

Il confronto democrazie-autocrazie è ancora attualmente in corso, e sarà bene che ciascuno se ne renda conto, perchè la stagione della “pax draghiana” non ha risolto alcuni nodi di fondo sul versante del sovranismo italiano che sono inevitabilmente destinati a riemergere. Se con qualche regia esterna, come sostiene qualcuno, lo vedremo.

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