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Perché il governo deve intervenire sul bonus-mania

Su 81 bonus fiscali indicati nel modello 730 di quest’anno, 60 sono usati da meno dell’1% dei contribuenti. Una frammentazione con cui governo e Parlamento dovranno confrontarsi per riordinare le agevolazioni, così come impone il disegno di legge delega per la riforma fiscale. Ma è difficile essere ottimisti. Il commento di Antonio Mastrapasqua

La bonus-mania che il governo non è riuscito a smontare ripropone la necessità di disboscare la giungla di “spese fiscali” che affliggono da sempre il sistema, creando complicazioni ai cittadini e danni erariali non marginali allo Stato.

Su 81 bonus fiscali indicati nel modello 730 di quest’anno, 60 sono usati da meno dell’1% dei contribuenti. Una frammentazione con cui governo e Parlamento dovranno confrontarsi per riordinare le agevolazioni, così come impone il disegno di legge delega per la riforma fiscale. Ma è difficile essere ottimisti.

Da anni si discute di “tax expenditures” senza che nulla sia cambiato. Dietro l’espressione inglese “tax expenditures” sono raggruppate varie agevolazioni fiscali che riducono il prelievo per alcuni contribuenti: dalle classiche detrazioni e deduzioni d’imposta, passando per i crediti d’imposta (tipicamente riservati alle imprese) per finire con le aliquote ridotte (come quelle per l’Iva) e le imposte sostitutive (come la cedolare secca sugli affitti).

Da anni la Commissione per le spese fiscali del ministero dell’Economia e delle Finanze, presieduta da Mauro Marè, produce un Rapporto che fotografa l’esistente. E da anni i vari governi che si sono succeduti alla guida del Paese hanno provato a intervenire senza successo per sfoltire l’abnorme elenco di sconti, agevolazioni e detrazioni tuttora presenti nel nostro ordinamento. Non lo si è fatto perché si tratta evidentemente di un’operazione che ha un costo in termini di consenso. Scontate le critiche e le proteste delle categorie che ne risultassero maggiormente colpite. Sono più di 500 le voci che attualmente compongono la folta platea delle spese fiscali per un costo annuo di oltre 60 miliardi. L’elenco non comprende le spese fiscali strutturali, come le detrazioni per carichi familiari o per lavoro dipendente. In tutto si arriverebbe a oltre 700 voci per un costo superiore ai 100 miliardi annui.

Nemmeno la nomenclatura è facile. Si cerca di stabilire, caso per caso, se un’agevolazione, rappresenti una caratteristica strutturale del tributo, che ne definisce il suo assetto “normale”, oppure rappresenti una deviazione dalla norma. Solo in questo secondo caso la disposizione è ritenuta “spesa fiscale”. La definizione di spesa fiscale si basa perciò sull’impiego di una serie di regole pratiche. Un criterio comunemente usato è quello di fare riferimento al numero di soggetti interessati dalla norma e alla dimensione della perdita di gettito: quando il beneficio riguarda una platea molto ampia di contribuenti e ha implicazioni finanziarie rilevanti, si può ragionevolmente supporre che la norma attenga alla struttura del tributo e si possa escludere che sia una spesa fiscale.

Peraltro, il maggior numero di agevolazioni su cui si hanno dati riguarda nel complesso un numero bassissimo di beneficiari, circa 425 mila: sono lo 0,35% dei contribuenti che usufruiscono delle tax expenditures in Italia.

Non sono mancati i suggerimenti in questi anni per razionalizzare l’impatto delle “tax expenditures”. Lo stesso Marè realisticamente ha detto che “naturalmente non è possibile cancellarle tutte: ma le stime mostrano che non è troppo difficile raccogliere almeno 10 miliardi. Per arrivare a 20-30 miliardi, cioè al costo di una riforma fiscale incisiva, bisogna intervenire anche sulle voci strutturali”. Insomma, intervenire si può: almeno si potrebbe. Ma ancora una volta sembra latitare la “volontà politica”. Stando ai confronti internazionali l’Italia è tra i Paesi Ocse quello con le spese fiscali più elevate, anche se i criteri di misurazione non sempre sono omogenei.

Fatto sta che a fronte di agevolazioni ridotte o cancellate ne sono sempre spuntate di nuove, con la conseguenza che il numero complessivo, nel corso degli ultimi vent’anni, è comunque aumentato, e con esso il costo in termini di gettito.

Sembra necessario seguire l’ipotesi di ricorrere a un intervento generale, che possa anche essere di tipo orizzontale. Si potrebbe ad esempio ridurre del 50% “quelle che costano meno di 100 milioni, oppure tagliarle tutte del 2%, o introdurre tetti di reddito oltre i quali lo sconto non scatta. Anche perché non va dimenticato che molte agevolazioni sono regressive, finanziando spese realizzate solo dalle famiglie con redditi medio-alti”, sempre citando Marè.

Di certo, l’incapacità di ridurre e razionalizzare il sistema dei bonus sembra non deporre a favore di una volontà di ripulire la giungla fiscale. Lo Stato rischierà di perdere ancora gettito, per poi ricercarlo nelle tasche dei soliti noti, accettando l’ipotesi (sindacale) che un reddito di 35-40mila euro segni l’ingresso nella fascia della ricchezza e non la semplice uscita (di poco) da quella della povertà.

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