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Mps, Generali, Tim e Ita. Le spine di Draghi (Quirinale permettendo)

Telecomunicazioni, credito, assicurazioni e trasporti. Sono tante le partite industriali e finanziarie rimaste sul tavolo del governo in vista del nuovo anno. Dalla possibile acquisizione dell’ex Telecom alla ricerca di uno sposo per Siena. Passando per la battaglia per le Generali fino al definitivo decollo dell’ex Alitalia

Generali, Mps, Tim, Ita. L’anno che verrà sarà ricco di dossier per Mario Draghi, sempre che l’ex presidente della Bce non venga eletto al Quirinale. Il 2021 che si sta per chiudere lascia aperte una serie di partite industriali che abbracciano i settori vitali e strategici dell’economia italiana: credito, assicurazioni, trasporti e telecomunicazioni. E in tutti gli scacchieri c’è un legame con il palazzo.

ASPETTANDO KKR 

Il primo dossier, forse il più caldo di tutti, è quello dell’ex Telecom, nel mirino del fondo americano Kkr dallo scorso novembre, con una manifestazione di interesse mediante la quale rilevare il 100% del gruppo a 50 centesimi ad azione (oggi in Borsa il titolo è a 44 cent). Non è ancora chiaro se arriverà l’Opa o meno, anche perché per il momento non sembra esserci aria di due diligence da parte di Kkr. I tempi, come raccontato a più riprese da Formiche.net, saranno quasi certamente dilatati anche perché per Tim e il suo nuovo ceo Pietro Labriola, successore di Luigi Gubitosi dopo l’addio di tre settimane fa, le priorità sembrano essere la stesura del piano industriale e la chiusura del bilancio 2021, già segnato da tre profit warning. Tutto da puntellare entro la fine di febbraio.

E poi non sono chiare le mosse dei francesi di Vivendi, azionisti al 24% dell’ex monopolista. Per il momento la media company di Vincent Bolloré si è limitata a respingere al mittente l’offerta di Kkr giudicando il prezzo troppo basso, aprendo al contempo a una società della rete unica, sempre che ci si arrivi, a trazione pubblica. A Palazzo Chigi, viene raccontato, la questione viene seguita attentamente anche se per il momento di Golden power si parla poco. Il premier Draghi, nella sua prima conferenza stampa di fine anno, è stato chiaro: il governo punta a salvaguardare rete, occupazione e tecnologia. Già, ma come?

LO SCONTRO NELLE GENERALI

Vicenda meno intrisa di politica ma non per questo meno strategica, la battaglia per le Generali. Da una parte ci sono i soci pattisti, ovvero Francesco Gaetano Caltagirone, Fondazione Crt e Leonardo Del Vecchio, dall’altra c’è il blocco di Mediobanca. Nei giorni scorsi Caltagirone ha rastrellato altre azioni, arrotondando la sua quota al 7,89% e portando il patto di consultazione siglato in vista del rinnovo del board nella prossima primavera, al 15,72% del capitale della compagnia assicurativa, contro il 17,2% di Mediobanca, quota raggiunta grazie a un prestito titoli. Lo stesso Del Vecchio, mediante la sua holding, Delfin, il 22 e il 23 dicembre ha acquistato 1,7 milioni di azioni della compagnia assicurativa, portando la propria partecipazione al 6,618%.

Ora, se il primo blocco di soci vuole discontinuità al vertice del Leone e dunque il passo indietro del ceo Philippe Donnet, Mediobanca chiede invece stabilità e dunque nessun ribaltone. Nei giorni scorsi Donnet ha alzato ufficialmente il velo sul piano industriale che guarda al 2024.  Come era prevedibile, il board riunitosi alla vigilia della presentazione del piano industriale, ha sancito la spaccatura tra gli azionisti del Leone.

Dei 13 consiglieri schierati, solo il rappresentante di Del Vecchi, non ha partecipato alla riunione mentre Francesco Gaetano Caltagirone, presente al board, ha deciso di votare no alle nuove linee guida targate Donnet. Business plan che ha dunque incassato il via libera di 11 consiglieri su 13. E il governo? Per il momento, è scesa in campo la Consob, la commissione di Borsa, che ha avviato una consultazione in vista dell’assemblea del 2022, alla quale i soci pattisti si presenteranno con un piano industriale e una lista di consiglieri alternativa e antagonista a quella targata Mediobanca.

IL REBUS DI SIENA

Le partite del governo Draghi con vista sul 2022 non finiscono qui. Un’altra patata bollente è Mps, la banca più antica del mondo che non trova con chi accasarsi. Dopo le fallite nozze con Unicredit, che ha gettato la spugna perché non intenzionata ad accollarsi tutto il peso della sfida e soprattutto maldisposta nell’accettare una ricapitalizzazione di 3 miliardi, giudicata insufficiente, Palazzo Chigi e il Tesoro azionista al 64% sono impegnati in un negoziato con l’Europa per ottenere una proroga di 18-24 mesi. Durante i quali risanare il Monte dei Paschi, ovvero scaricare le sofferenze nella società pubblica Amco, ripulire i bilanci e mettere in pancia al Mediocredito Centrale le filiali del Sud.

Solo al termine di queste operazioni sarà possibile intavolare nuove trattative per restituire Siena al mercato. Il Tesoro vorrebbe riaprire una finestra già entro il giugno del 2022, chiamando ancora una volta Unicredit, ma non solo. L’operazione di sistema cui starebbe pensando Via XX Settembre potrebbe interessare anche altre banche, come Banco Bpm e Bper. Nel frattempo il ceo di Mps, Guido Bastianini, pensa a un piano industriale grazie al quale la banca proverà a farsi forza sulle sue gambe. E comunque, il settore bancario italiano ha anche altre criticità da affrontare che si chiamano Carige e Popolare di Bari.

IL FUTURO DI ITA

E che dire di Ita, la compagnia al 100% dello Stato nata sulle ceneri della vecchia Alitalia? Se la newco pubblica non vuole essere più la vecchia Alitalia, pozzo senza fondo costata ai contribuenti italiani 13 miliardi di euro in 45 anni (6 dei quali bruciati negli ultimi 7 anni), dovrà fare qualcosa in più di un semplice restyling, presentato ufficialmente lo scorso ottobre con il piano industriale messo a punto dall’ex manager Fca, Alfredo Altavilla, che di Ita è presidente e dal ceo Fabio Lazzerini. Gli elementi di discontinuità tra la nuova compagnia e un passato fatto di sprechi, costo del lavoro fuori mercato e bilanci in profondo rosso, non mancano: metà della flotta (52 aerei anziché 113) e un quarto del personale (2.800 dipendenti anziché 10.500). Ma il rischio che Ita possa essere una riedizione di Alitalia c’è.

Per fortuna il governo, ministro Giancarlo Giorgetti in primis, sembra avere le idee chiare: il prima possibile Ita dovrà fare a meno della presenza dello Stato, oggi azionista al 100%, e volare da sola senza bruciare 600 milioni all’anno come Alitalia prima della pandemia. Meglio con un partner di volo affidabile e navigato, magari Lufthansa. D’altronde Ita subirà la forte concorrenza delle low cost e dell’Alta velocità sulla rotta-madre domestica, la Roma-Milano. E poi dovrà fare a meno della Sardegna, almeno per i prossimi sette mesi, visto che la gara se l’è aggiudicata la spagnola Volotea. Ita, insomma, non ha molte possibilità di fare profitti e stare in piedi da sola. Un’altra spina per Draghi. Quirinale permettendo.

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