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I bambini, i cani e papa Francesco. La riflessione di Ciccotti

A proposito del ruolo insostituibile del cane, amico dell’uomo, tra letteratura, cinema e vita quotidiana. Omero, Don Bosco, Adolf Born, Anton Cechov, Vittorio De Sica, Lassie, Rin Tin Tin, Hachiko… In margine alla nota di papa Francesco. Una riflessione del comparatista e storico del cinema Eusebio Ciccotti

Nessuno nega il ruolo amicale e di concreto aiuto che il cane offre all’uomo da decine di secoli. Oggi abbiamo sempre più cani specializzati nella collaborazione con le nostre attività quotidiane, oltre alla mera compagnia. Dai cani da guardia, ai cani san Bernardo, ai cani poliziotti, ai cani molecolari che salvano persone sotto le macerie, ai cani utilizzati per le diverse terapie. Da non dimenticare il vecchio cane guardiano e difensore del gregge.

Sappiamo che l’affetto di un cane verso il proprio padrone o padrona a volte supera la nostra sfera razionale. Quante volte abbiamo sentito di cani che hanno “vegliato” il proprio padrone deceduto, o lo hanno atteso per mesi anche quando questi era scomparso. Per tacere del “nero di Don Bosco”, un cane randagio, che, di notte, mentre il don tornava a casa, interveniva in sua difesa quando, più d’una volta, fu per essere aggredito: una sera lo salvò da morte sicura. Poi, l’agile e provvidenziale cane, si dileguava nel nulla.

Agli inizi del Novecento, il nuovo medium, il cinematografo, ingaggiò subito i cani-attori. Guardate cose scriveva Václav Tille, il primo teorico del cinema, nel 1908! «Purtroppo molti film ci raccontano storie simili. Con bambini, cani e ladri il successo è assicurato». Tille racconta il plot di un film famoso in quegli anni. Il titolo cambiava a seconda del Paese di distribuzione: La morte di un cieco o Un cane fedele (1905). Un moribondo cieco nel letto. Il medico, pensieroso, visita il paziente. Poi, sconsolato, si siede a un logoro tavolino e scrive la ricetta. La lascia sul tavolo. Esce. Alla scena ha assistito il cane del moribondo. Dopo un attimo di esitazione il cane afferra con la bocca la ricetta. Apre la porta con la zampa e corre in farmacia. Il farmacista prende la ricetta. La legge. Gli mette in bocca un farmaco in boccetta. Il cane torna. Il padrone, purtroppo è morto. Il cane segue il carro funebre. Al cimitero si accovaccia sulla tomba del padrone. Il guardiano del cimitero invano cerca di cacciarlo via. Fine. Il pubblico di Europa, America e Asia, del primo Novecento, dove era giunto il cinematografo, dopo lo spettacolo, piangeva a dirotto.

La letteratura mondiale, dal canto suo, ci ha fatto conoscere cani con i quali siamo cresciuti. Il fedele Argo, il cane di Ulisse, attende il ritorno del suo padrone per venti anni e poi, appena lo vede, lo saluta, e si spegne dolcemente: ora può inoltrarsi nel regno dei morti. Un cane fa da compagnia al naufrago Robinson Crusoe (1719, Daniel Defoe), e agli inizi del Novecento un terrier, Toto, accompagna la piccola Dorothy, fiondati da un tornado, nel Paese dei Ghiottoni (Il meraviglioso mago di Oz, 1900, L. Frank Baum). Nella versione filmica del 1939 di Victor Fleming Toto è la castana cagnolina Terry, ben addestrata, sotto regolare contratto sindacale, a 125 dollari a settimana.

Jack London, con il suo Zanna bianca (White Fang, 1906), romanzo tradotto in venticinque lingue, onorato da molteplici trasposizioni filmiche, ci ha fatto amare un quattro zampe bastardo, figlio di lupo e, per un quarto, di madre cagna, portando nel Klondike della fine del XIX secolo, durante la mitica corsa all’oro, generazioni di giovani lettori.

E che dire del romanzo Torna a casa Lessie (1940) di Eric Knight, la bella cagnetta che, nonostante sia stata venduta, non vuol separarsi dalla sua amichetta del cuore? Dopo l’omonimo film (1943, di Fred Wilcox: splendido colore sperimentale) che alleggeriva la tensione della guerra, arrivò la serie-tv del secondo dopoguerra (1954-1973), Lassie, con una variante di trama: incollerà generazioni di bambini, anche italiani (ma, da noi, in bianco e nero).

E se poi vogliamo ricordare il genere western-tv, per adulti e bambini, non possiamo non menzionare Le avventure di Rin Tin Tin (serial americano del periodo 1954-1957, prodotto dalla ABC e trasmesso dalla Rai negli anni Sessanta, b/n). Qui il cane, appunto Rin Tin Tin, è un pastore tedesco amico e “fratello” di Rusty (Lee Aker), il bambino orfano adottato dall’esercito nordista, con il quale sono cresciuti i sessantenni e i settantenni di oggi (incluso chi scrive).

Poi ci sono i cani della letteratura moderna “impegnata”. Si va dal cagnolino testimone silente delle passeggiate, sul lungomare di Jalta, della timida padroncina, la giovanissima signora Anna Sergèevna, travolta dall’amore adulterino per il maritato Dimitrij Gurov (La signora con il cagnolino, 1906, Anton Čechov), al cane intelligente e d’avanguardia di Mikhail Bulgakov, Cuore di cane (1925). Un cane, quest’ultimo, che ragiona come un essere umano e vede il mondo dal suo punto di vista, soffermandosi sulla idiozia dei comportamenti uomini.

E, a proposito di cani super dotati, passando al film animato, abbiamo Bobo il cane di Hugo e Bobo, popolare serie della TV cecoslovacca degli anni Settanta e Ottanta, creata dal noto caricaturista, disegnatore e pittore cèco Adolf Born.

Qui si mette in risalto l’intelligenza del cane e la stupidità del suo padrone. Ricordiamo un episodio esemplare. Una mattina Bobo si alza, prende il caffè, tenendo la tazzina con una zampa anteriore. Poi apre la porta, sempre con una zampa, ed esce. Va all’edicola, allunga di nuovo una zampa anteriore e lascia una moneta al giornalaio. Questi saluta Bobo, gli sorride, gli mette in bocca il quotidiano. Bobo rientra in casa. Si siede comodamente in poltrona. Apre il quotidiano, reggendolo con le zampe anteriori, le zampe posteriori elegantemente accavallate, e inizia a leggere. Il suo padrone, Hugo, è ancora sul divano, semistordito dalla sbornia della notte precedente. Lo sguardo inebetito. Osserva impotente e meravigliato Bobo che segue la pagina dell’economia.

Due film perfetti, di taglio quasi documentaristico, ci parlano di due cani davvero devoti verso i loro padroni: Flaik (Umberto D., 1952, V. De Sica) e Hachiko. Il tuo miglior amico (2009) di Lasse Hallström. Chi non si è commosso davanti a Flaik nel momento in cui, nel canile, destinato alla soppressione, viene salvato in extremis da Umberto e quando questo, a sua volta, salva il suo padrone per due volte (dalla finestra di casa e sui binari del treno) dal suicidio per povertà? Chi non ha pianto quando Hachiko, dopo l’improvvisa morte del suo padrone, il professor Parker Wilson (il crepuscolare Richard Gere), per nove anni, fino allo sfinimento, è andato ad aspettarlo alla stazione dei treni (storia vera)?

Sino a un secolo fa solo i borghesi e i nobili si potevano, di norma, permettere il “cane di compagnia”. L’altra categoria in grado di mantenere un cane, per la guardia e/o la compagnia durante il lavoro quotidiano, oltre al pastore, era l’artigiano. Il povero, il proletario e il barbone giocava saltuariamente con il randagio del villaggio o del quartiere o si accompagnava a questo, come vediamo nell’impareggiabile Vita da cani, 1918, con il mitico Charlot (C. Chaplin).

Nel XXI secolo, grazie all’aumento della ricchezza pro-capite, agli spaziosi appartamenti, ai giardini per chi abita in villetta, ai terrazzi, ai balconi, tutti possiamo ospitare un cane in casa. Fino a farne quasi una moda.  Per alcuni il cane è una sorta di riscatto sociale. Ho visto decine di conoscenti che fino a ieri bestemmiavano, sputavano per terra, gettavano cartacce camminando, lanciavano cicche sul marciapiede, girare improvvisamente con cani di ogni razza: dai tascabili chihuahua ai bulldog, passando per gli intramontabili barboncini.

Molti neo-proletari e piccolo borghesi in preda a sindrome imitative scelgono la razza seguendo i cani dei loro divi della musica o del cinema. Come un gadget o un profumo da indossare. Vuoi mettere passeggiare di notte con uno o più amici (come ne I vitelloni,1956, F. Fellini), ormai fuori moda, oppure “uscire” con la razza canina più fashion? La seconda soluzione, mi fa chic, intellettuale, artistico, persino nobile.

Il cane fa sentire il neo-borgataro, il wifi-periferico, l’arricchito digitale del centro storico senza letture vere, un autentico V.I.P. Non è distopico pensare a una società in cui, tra una manciata d’anni, nei giardini pubblici a ogni anziano a passeggio corrisponderanno tre cani al guinzaglio. I bambini saranno spariti dai parchi pubblici.

Il recente monito di papa Francesco non è irrealistico e irrispettoso. Il papa ha dato voce ad un pensiero da molti inespresso per autocensura. Vi sono coppie non interessate ad allevare figli ma pronte ad allevare animali domestici. Sta passando l’idea di una vita solo biologica. Viviamo sino a quando siamo in salute. Poi, una pillola, e ce ne andiamo. “Perché mettere al mondo figli se il nostro pianeta va verso l’autodistruzione? Me ne andrò dopo il mio cane e il mio gatto”. Siamo all’egoismo esasperato.

Papa Francesco ci ha voluto ricordare i valori di sempre. Il senso del suo intervento, volutamente travisato, era pacifico: si faccia una famiglia e poi si adottino, eventualmente, anche animali domestici. Semplicemente. Cari signore e signori, aggiungiamo noi, badate che il vostro cane vuole giocare anche con i vostri bambini.

 

 

 

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