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Qual è lo stato di salute della sanità italiana? L’analisi di Pennisi

La Fondazione Open Polis, utilizzando i dati Eurostat relativi al numero di medici rispetto alla popolazione residente, fornisce una delle variabili che indica lo stato della sanità pubblica in tempi normali, e conseguentemente anche la capacità di rispondere a un contesto di tipo emergenziale

La pandemia imperversa. Siamo ancora lontani dal picco dei contagi e, leggendo o ascoltando, i bollettini serali con il numero dei decessi pare essere tornati alla primavera scorsa. È stata avanzata l’ipotesi, al fine di evitare di comunicare dati che potrebbero essere rozzi, incompleti e fonte di fraintendimenti, che le statistiche saranno probabilmente presentate una volta la settimana e dopo essere “trattate” da mani esperte. Temo che, dopo due anni in cui ci si è abituati al bollettino serale (che comunque continua ad essere disponibile sul sito di Worldmeter e su quello dell’Organizzazione Mondiale della Sanità), ciò creerà maggiore ansia nella popolazione.

Questa testata ha tenuto un indirizzo lineare dall’inizio della pandemia: dato che per circa dieci anni abbiamo ridotto i finanziamenti della sanità, che non abbiamo fatto le necessarie riforme organizzative (relative, in particolare, al rapporto tra i medici di base, chiamati anche medici di famiglia, ed il Servizio sanitario nazionale), e che non abbiamo aggiornato il programma per fare fronte alle crisi pandemiche, ci siamo trovati svantaggiati e, per questo motivo, abbiamo pagato un prezzo elevato (in termini di contagi, ospedalizzazioni, terapie intensive e decessi, nelle prime fasi della pandemia); non abbiamo voluto ricorrere ai prestiti del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) e dare adeguata priorità alla sanità nel Programma nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), rendendo più difficile attrezzarsi per nuove ondate (dando quasi per scontato che la crisi sanitaria fosse terminata l’estate scorsa) e ci troviamo nei guai.

Abbiamo lodato i nostri medici ed infermieri (i veri soldati della lotta alla pandemia) per la loro abnegazione ed il lavoro indefesso, anche mettendo a rischio la loro salute. Ma non ci siamo mai chiesti quale è la nostra dotazione rispetto alla popolazione e relativamente, ad esempio, il resto d’Europa.

È un compito che si è presa per i medici la Fondazione Open Polis, utilizzando i dati Eurostat relativi al numero di medici rispetto alla popolazione residente.

Si tratta di una delle variabili che indicano, come riporta Eurostat, lo stato della sanità pubblica in tempi normali, e conseguentemente anche la capacità di rispondere a un contesto di tipo emergenziale.

In breve, nel 2019 l’Unione europea (Ue) aveva in servizio 1,7 milione di medici, ossia in media 390,6 ogni 100mila abitanti, un dato aumentato di 18 unità circa rispetto al 2016, quando erano 372 ogni 100mila. Anche in Italia si registra un aumento confrontando le stesse annualità, da 395,3 medici ogni 100mila abitanti nel 2016 a 405 nel 2019, ma il calo è forte calo rispetto al 2005 quando si sfioravano i 600 medici ogni 100mila abitanti. Analizzando poi i dati relativi ai vari Paesi dell’Ue, il panorama europeo è piuttosto eterogeneo. Dalla Grecia, dove sono 616 i medici ogni 100mila abitanti, al Belgio, dove il numero risulta quasi dimezzato (316).

Gli italiani sono anche i più anziani e scendiamo al decimo posto in classifica se si guarda solo ai medici generici o di famiglia (solo 89 ogni 100mila abitanti ed un numero totale complessivo di 54.000).

Per quanto riguarda invece il numero complessivo di medici in servizio, sia di base che specialisti, l’Eurostat ne conta in Italia 240.000, e ci vede al secondo posto come numero assoluto, dopo la Germania, dove se ne contano 345.000. Il nostro Paese, però, è anche quello con “la più alta percentuale di medici di età pari o superiore a 55 anni”: tale percentuale raggiunge “un picco del 54% in Italia”, è compresa tra il 42% e il 49% in Ungheria, Lussemburgo, Cipro, Germania, Belgio, Francia, Lettonia, Estonia e Bulgaria, ed è più bassa del 42% nei restanti paesi Ue.

Come sottolinea l’Ocse, però a essere significativo non è solo il personale ospedaliero disponibile, ma anche la tipologia cui esso appartiene. I compensi relativamente bassi dei medici di base e il minore prestigio rispetto ad altri percorsi fanno sì che molti neolaureati preferiscano intraprendere la strada della specializzazione. Secondo l’organizzazione però un mix equilibrato tra medi di base e specialisti è un ingrediente fondamentale di un buon sistema sanitario.

In Italia come nel resto d’Europa, il panorama nazionale è caratterizzato da disparità a livello regionale. A risultare fornito di personale medico, in rapporto alla popolazione residente, è in particolare il centro della penisola. Con oltre 482 dottori ogni 100mila abitanti, è la Sardegna la regione italiana più fornita. Seguono il Lazio (473,8) e la Liguria (462,4). A registrare le cifre più basse sono invece le due province autonome di Bolzano e Trento, con rispettivamente 324,4 e 329,2 dottori ogni 100mila abitanti. Seguite sotto questo aspetto dal Veneto (345,7) e dalla Basilicata (351,5). In tre regioni italiane, il numero di medici è diminuito. Rispetto a qualche anno fa, in quasi tutte le regioni della penisola la disponibilità di dottori è aumentata. Fanno eccezione in questo senso la Valle d’Aosta, la provincia autonoma di Trento e la Sardegna, dove invece si è osservato un calo. Il più significativo è quello della Valle D’Aosta, passata da 373,7 medici ogni 100mila abitanti nel 2016 a 367 nel 2019.

Questa, però, è una pura fotografia costruita utilizzando lo studio Open Polis con altri dati Eurostat. Poco o nulla sappiamo delle armi di cui dispongono questi soldati e se e come i medici di famiglia sono integrati con il resto del settore.

Auguriamoci che il ministero della Salute, in collaborazione con le Regioni e le Province autonome, fornisca un quadro più completo.

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