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Terre rare, il Congresso vieta al Pentagono di rifornirsi dalla Cina

La proposta di legge è stata depositata al Senato nella giornata di ieri. L’obiettivo: vietare ai contractors militari di utilizzare materiale prodotto da Pechino dal 2026. Una mossa per accelerare il decoupling tecnologico e rinforzare la base industriale americana…

La de-globalizzazione entra nel vivo trainata dalla competizione, ormai serrata, tra Stati Uniti e Cina per la supremazia tecnologica. Insieme ai semiconduttori, al centro delle schermaglie tra i due colossi, anche le terre rare sono divenute ormai una priorità per gli interessi nazionali di Washington nel corso dell’ultimo biennio.

Nella giornata di ieri, i senatori Tom Cotton, repubblicano dell’Arkansas, e il democratico dell’Arizona, Mark Kelly, hanno depositato al Senato una proposta legislativa (Restoring Essential Energy and Security Holdings Onshore for Rare Earths Act) per vietare ai contractors del Pentagono, a partire dal 2026, di rifornirsi dalle aziende cinesi per i propri dispositivi tecnologici e d’armamento per quanto riguarda le applicazioni legate alle terre rare, oltre a imporre lo stockpiling strategico e permanente dei materiali.

Si tratta di un’iniziativa che conferma la consapevolezza del Congresso, in un’ottica bipartisan, di una dipendenza che espone la base industriale militare statunitense a potenziali ritorsioni da parte di Pechino, qualora la “guerra fredda tech” entrasse in una spirale di escalation incontrollata. Dai chip a Taiwan, fino alle contese commerciali e alle crescenti frizioni sulle politiche climatiche. Già nel 2010 la Cina aveva fatto ricorso al blocco delle esportazioni di terre rare al Giappone in seguito ad un incidente diplomatico sulle isole Senkaku, oltre ad aver minacciato Washington, anche se indirettamente, nel corso della guerra commerciale nel 2019 e più di recente.

“Porre fine alla dipendenza americana dalla Cina per la processazione e raffinazione delle terre rare”, ha commentato il senatore Cotton, che siede nel comitato d’intelligence e delle forze armate del Senato, raggiunto da Reuters, “è cruciale per rafforzare i settori tecnologici e della difesa americani”. Secondo un rapporto del Congressional Research Service, ciascun F-35 – fiore all’occhiello dell’industria della difesa americana – contiene circa 430kg di ittrio, terbio e altre terre rare, particolarmente importanti per il loro sistema di puntamento.

Ma non si tratta della prima iniziativa. La proposta di legge, presentata da Marco Rubio nel maggio del 2020, per incentivare il reshoring della filiera delle terre rare è stata la prima di una serie di iniziative che hanno progressivamente coinvolto le più importanti agenzie federali americane: dal Dipartimento della Difesa a quello del Commercio, fino ad arrivare sulla scrivania di Donald Trump nel dicembre 2020 con l’ordine esecutivo che dichiarava lo “stato di emergenza nazionale” sui metalli critici. L’obiettivo è sempre stato lo stesso: sganciare la supply chain americana da Pechino per riportare sul suolo nazionale attività produttive ritenute essenziali per promuovere i settori della quarta rivoluzione industriale, dalla mobilità elettrica, passando per l’energia eolica e le telecomunicazioni.

In quest’ottica, il Pentagono è stato tra i principali investitori garantendo all’azienda californiana MP Materials i finanziamenti necessari per riattivare l’estrazione di terre rare sul suolo americano, e in prospettiva di scalare la produzione più a valle, nella raffinazione di ossidi attualmente dominati da Pechino, in presenza di attori downstream nazionali. Attualmente MP invia la maggior parte del suo output in Cina per le fasi di lavorazione. USA Rare Earth ed Energy Fuels sono due altre realtà in fase di lancio per una maggiore diversificazione del mercato nordamericano, insieme alla canadese NEO Performance Materials.

Anche il settore privato si è mobilitato di recente, con gli accordi siglati da General Motors per assicurarsi forniture di magneti permanenti essenziali per i motori dei veicoli elettrici. Ma sono i rischi legati alle implicazioni per l’industria militare, e per esteso per la sicurezza nazionale, ad aver reso urgente l’intervento legislativo. Nel 2016 un’indagine condotta dal Dipartimento del Commercio sul procurement delle aziende americane lungo la filiera aveva scoperto che 66 dei 160 intervistati importava componenti di terre rare, e 28 di esse erano dipendenti dalla Cina. Il 40% dei player individuati erano fornitori diretti del Pentagono. Nel 2018, un rapporto sulla resilienza della base industriale della Difesa aveva inoltre concluso che la dipendenza dalle terre rare cinesi avrebbe forzato gli Stati Uniti a scegliere tra accettare la dipendenza o costi più elevati.

Oggi, questo dubbio sembra essere stato sciolto, soprattutto dopo la pubblicazione del rapporto sulle vulnerabilità delle supply chain critiche della Casa Bianca, lo scorso giugno, e la crescente ostilità tra Washington e Pechino. Il report aveva infatti evidenziato come il consumo domestico di 613 milioni di dollari di terre rare desse vita ad un comparto industriale dal valore di 496 miliardi di dollari. Con la delocalizzazione del settore, gli USA hanno perso 4 stabilimenti di produzione di magneti permanenti e 3 impianti di separazione di ossidi di terre rare. L’importazione di magneti come domanda diretta costituisce due terzi del consumo della difesa, mentre il settore civile li importa come domanda indiretta, ovvero come tecnologia all’interno di prodotti finiti.

La Cina è infatti l’unico paese al mondo che vanta una filiera mine-to-magnet completamente integrata e che, stante gli sviluppi più recenti con il consolidamento verticale di un grande conglomerato industriale, è ben posizionata per catturare i segmenti più high-tech. La nuova configurazione, infatti, vedrà stabilirsi la nuova entità, China Northern Rare Earth Group, come il secondo produttore cinese di ossidi di terre rare, contando circa il 70% della produzione di terre rare pesanti come disprosio e terbio, secondo le quote di produzione stabilite dal governo centrale.

“Il vantaggio della Cina non è geologico, ma la strategia industriale”, ha commentato l’analista del Center for Strategic and International Studies (CSIS), Nikos Tsafos, “ha sviluppato delle filiere per estrarre valore da questi minerali, e in parte diventando un mercato per questi prodotti. Qualcosa che gli USA e gli alleati potranno replicare nel tempo”.

Le preoccupazioni sull’ulteriore rafforzamento del potere di mercato, e sui prezzi, da parte di Pechino non escludono ulteriori indagini da parte della US Trade Commission per valutare eventuali distorsioni, ha aggiunto Reuters. In realtà, il Dipartimento del Commercio, seguendo le indicazioni della Casa Bianca, aveva avviato lo scorso settembre un’investigazione, sotto la Sezione 232 del Trade Expansion Act, per capire se le importazioni di magneti costituissero o meno una minaccia per la sicurezza nazionale.

Resta da attendere la reazione di Pechino: di recente un’influente think tank cinese ha affermato come i metalli critici, e le terre rare, saranno sempre più al centro della competizione tra USA e RPC e un asset strategico in mano a Pechino. E questo potrà essere ancor più una carta negoziale, o offensiva, nel contesto di “weaponization” delle catene del valore, a partire dai semiconduttori.

E quella del mercato. Secondo l’agenzia di consulenza Adamas Intelligence, da gennaio 2020 il prezzo della monazite (il minerale da cui vengono estratti i concentrati di terre rare) in Cina è triplicato, mentre il prezzo del neodimio (input cruciale per i magneti dei motori elettrici e delle turbine eoliche) è quadruplicato dai 42 $/kg di gennaio 2020, ai 160 $/kg oggi. Un rally attualmente svincolato dai rischi geopolitici percepiti dal mercato, e dovuto principalmente alla crescente domanda di applicazioni downstream per via degli stimoli fiscali e nel cleantech su scala globale, oltre ai colli di bottiglia logistici.

La mossa dei senatori potrebbe risultare un incentivo, in assenza di un mercato di sbocco downstream consolidato capace di assorbire in futuro l’0utput nazionale, per la creazione di segmenti midstream (raffinazione/separazione) attraverso una domanda artificiale, in primis, dal settore militare chiamato a riprogrammare, e dichiarare, il proprio procurement entro il 2026.

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