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Petroyuan e non solo. Perché l’Arabia Saudita cerca la Cina

Si va verso il petroyuan? Dietro alla possibile accelerazione delle discussioni tra Arabia Saudita e Cina c’è il peso di una relazione complicata tra Riad e Washington

Secondo il Wall Street Journal c’è in corso una trattativa tra Arabia Saudita e Cina per permettere a Pechino di pagare il petrolio acquistato in Renminbi, la moneta cinese. Se ne parla da un po’, la notizia ha avuto parecchio risalto sui giornali e vale la pena un approfondimento su contesto e scenario.

Innanzitutto, quanto in movimento significa che da Riad arriverebbe una colpo sotto la cintura contro l’alleato (il difficile alleato) americano, che vedrebbe intaccato il totale dominio del Dollaro sul mercato del greggio globale, dove è utilizzato come moneta unica di riferimento. Quella in costruzione è l’alleanza tra il maggior importatore di petrolio, la Cina, con il più grande esportatore, l’Arabia Saudita: aspetti che sono centrali. Senza questo doppio ruolo la discussione sarebbe non-starter.

La conseguenza diretta sarebbe la perdita di universalità del concetto di “petrodollaro”, perché esisterebbe un “petroyuan” che nascerebbe già fortissimo, e dunque significherebbe un arretramento sostanziale degli Stati Uniti su un asset centrale delle questioni internazionali. Tutto al condizionale, perché la questione non è nuovissima, dialoghi sono in corso almeno dal 2016, ma ora sembra che potrebbe esserci un’accelerazione.

Conseguenza di un contesto estremamente critico nelle relazioni tra Washington e Riad dove la presidenza di Joe Biden ha cercato in tutti i modi di disfare le politiche trumpiane di evidente vicinanza all’erede al trono Mohammed bin Salman, e ha quindi imbracciato posizioni radicalmente critiche nei confronti del Principe ereditario.

“Le dinamiche sono cambiate radicalmente. Le relazioni degli Stati Uniti con i sauditi sono cambiate, la Cina è il più grande importatore mondiale di greggio e sta offrendo molti incentivi redditizi al Regno”, ha detto un funzionario saudita al WSJ.  “La Cina ha offerto tutto ciò che si può immaginare a Riad”, ha aggiunto. E la questione dell’offerta è il fulcro: Washington ha messo in campo incentivi negativi, pressioni, ma di esporsi per incentivi positivi finora non c’è volontà.

Anche perché per il democratico alla Casa Bianca significherebbe incorrere nelle critiche di una componente non trascurabile del proprio elettorato che non vede in bin Salman il leader di un rinascimento arabo ma piuttosto il mandante dell’assassinio dell’editorialista del Washington Post Jamal Khashoggi (d’altronde così Cia dixit) e la guida di un Paese in cui la questione dei diritti è ancora arretrata.

Sebbene infatti MbS (acronimo internazionale del principe) abbia spinto per un’emancipazione, il suo regno fa più notizia per l’esecuzione di 81 prigionieri avvenuta il 13 marzo che per una serie di piccole ma significative riforme. Il sistema è complesso, il ruolo dell’erede è accettato da una generazione in evoluzione, ma all’esterno soffre ancora una percezione non positiva. Nel rapporto con Riad vari governi e singoli politici occidentali, innanzitutto quello di Biden, devono pesare le azioni con il consenso.

Su queste dinamiche la Cina di Xi Jinping trova spazi. Il principio di non interferenza negli affari interni agli altri Paesi diventa un valore per il modello (autoritario) che Pechino intende rappresentare come riferimento contro quello delle Democrazie, che Biden eleva a vettore di politica internazionale – e con esso la richiesta a partner scomodi come i sauditi di rimodulare il proprio modo di vivere, secondo il rispetto di canoni e diritti accettati dall’Occidente.

È in questo quadro che la richiesta americana a Riad di alzare il livello delle produzioni di petrolio per riequilibriate i prezzi per il momento giace inascoltata, mentre dalla corte saudita arriva un invito indirizzato allo Zhongnanhai per portare Xi in tour in Arabia. Riad cerca proiezioni dirette, si muove per interessi personali, davanti al disimpegno americano dalla regione – connesso al raggiungimento dell’indipendenza dal petrolio del Golfo e alla necessità di aumentare concentrazione e sforzi sull’Asia, ossia sulla Cina.

Secondo Cinzia Bianco, esperta di Golfo Persico dell’Ecfr di Berlino, a Riad c’è una certo astio nei confronti di Biden che guida certe risposte. “È quasi una voglia di punirlo per quel suo comportamento severo nei confronti del regno e anche a questo si legano certi flirt con la Cina”, spiega a Formiche.net.

“Riad — aggiunge — vuole concessioni, anche in cambio di un aiuto con la Russia, che Washington attualmente non sembra disposto a concedere. La reazione è simile a un guardate che siamo in grado di fare (con la Cina)”.

Un tema di attrito, fa notare l’esperta del think tank paneuropeo, è ancora l’Iran. Le dinamiche con cui si sta ricomponendo l’accordo sul nucleare Jcpoa, come i rumors di stampa circolati sul possibile de-sanzionamento delle forze militari teocratiche Irgc (i Pasdaran), “mandano su tutte le furie i sauditi”. Gli americani lo sanno, ma proseguono secondo la propria agenda.

Anche per questo i sauditi scelgono (per il momento) di rispettare le decisioni prese con la Russia in sede OPEC+ a proposito delle produzioni; anche per questo gli emiratini, che annunciano cooperazione con Mosca sulla sicurezza energetica, hanno scelto di continuare le relazioni con la Cina stoppando l’inserimento nel programma F-35. C’è però un tema di fondo: finora gli Stati Uniti hanno garantito la sicurezza di quei Paesi, che – vedere la guerra in Yemen – hanno dimostrato di non essere ancora autosufficienti sul tema. La Cina difficilmente si sostituirà su questo campo agli americani – e molto delle relazioni Washington-Golfo-Pechino ruotano attorno a questo.

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