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Cina e 5G, l’Italia che fa? Dal Canada un campanello d’allarme

Il bando delle cinesi Huawei e Zte dalla rete 5G disposto dal Canada suona un campanello d’allarme anche per l’Italia. A tre anni da un rapporto del Copasir che chiedeva ufficialmente di mettere alla porta le aziende di Pechino per questioni di sicurezza nazionale il dossier è congelato. Ma a Washington i riflettori sono accesi

A che punto è la notte della sicurezza cyber italiana? Un campanello d’allarme suona dal Canada: giovedì il governo di Justin Trudeau ha messo al bando dalla rete 5G nazionale Huawei e Zte, i colossi delle telecomunicazioni cinesi che gli 007 occidentali accusano di spionaggio. La mossa era attesa da tempo ed è arrivata in ritardo sulla tabella di marcia. Da anni gli Stati Uniti chiedono ai loro alleati di escludere le aziende cinesi dalla rete di quinta generazione. Concorrenza sleale, accusa Pechino, tornata a scagliarsi dopo il bando canadese contro una decisione “priva di ogni fondamento” e decisa a passare alla rappresaglia. Questione di sicurezza nazionale, ripete da Washington un fronte politico bipartisan che si è fatto strada nell’amministrazione  Barack Obama, ha alzato la voce con Donald Trump alla Casa Bianca e continua a farsi sentire ai tempi di Joe Biden.

Come Regno Unito, Nuova Zelanda e Australia, il Canada è tra i primi Paesi occidentali ad adeguarsi. Tutti e quattro insieme agli Stati Uniti formano i “Five Eyes”, un’alleanza di condivisione di intelligence che inevitabilmente marcia all’unisono sulla sicurezza delle telecomunicazioni.

Il ritardo con cui Trudeau ha messo alla porta le aziende tech cinesi è presto spiegato: per due anni la spada di Damocle del bando tecnologico è stata usata da Ottawa come arma negoziale con Pechino per il caso di Meng Wanzhou. La vicepresidente di Huawei, figlia del fondatore ed ex ufficiale dell’Esercito di liberazione popolare Ren Zhengfei, è stata arrestata nel dicembre del 2019 a Vancouver con l’accusa di aver violato le sanzioni secondarie all’Iran.

Per tutta risposta, il governo cinese ha messo in carcere due cittadini canadesi, Michel Kovrig e Michael Spavor, promettendo di buttare la chiave. Ora che l’impasse è stato risolto – il Canada ha liberato Meng senza estradarla negli Stati Uniti, dove era ricercata, e in cambio ha riavuto a casa i due canadesi arrestati – la Guerra fredda tech si riapre con una mossa destinata ad aggravare e non poco i rapporti con la Cina.

In Europa c’è solo un Paese che ha risposto con un pollice in su alle richieste dell’alleato americano. Il Regno Unito di Boris Johnson ha infatti deciso di escludere Huawei e Zte dalla rete 5G con un bando pronto a scattare nel 2027 – per alcuni esperti sono tempi molto, troppo lunghi – proprio come ha fatto da tempo in America la Federal communication commission (Fcc), l’agenzia governativa preposta alle telecomunicazioni.

Non si può dire lo stesso del resto d’Europa, dove l’affaire Huawei continua a tenere banco anche se offuscato dai tamburi della guerra russa in Ucraina. Buona parte degli alleati al di qua dell’Atlantico ha fatto orecchie da mercante. Ha dato una mano la regolamentazione europea, che con il “toolbox per il 5G” pubblicato nel gennaio del 2020 ha preso una posizione mediana: diversificare i fornitori è cosa buona (vale per il gas russo come per il 5G) ma di mettere alla porta le aziende cinesi non se ne parla.

In questa cornice si inserisce la posizione italiana, che però merita una menzione a parte. Sì, perché da Roma ormai quasi tre anni fa è arrivata un’indicazione tutta politica e per niente ambigua sulla presenza delle aziende cinesi nella rete 5G. Citofonare al Copasir, il comitato parlamentare di controllo dell’intelligence che nel dicembre del 2019 ha chiesto ufficialmente di escludere le compagnie di Pechino dall’infrastruttura italiana in un rapporto sulla sicurezza delle telecomunicazioni, dopo una lunga indagine condotta con i vertici degli 007 italiani.

Un’indicazione votata all’unanimità da un comitato bipartisan – allora guidato dal leghista Raffaele Volpi, oggi dal senatore di Fdi Adolfo Urso, ma l’indagine era stata avviata dall’ex presidente dem Lorenzo Guerini – e dunque forte di un consenso più che trasversale. Tre anni dopo i fatti parlano da sé: a quell’indicazione non è stato dato seguito.

Va detto che la sicurezza cyber ha fatto passi da gigante. Prima con il “Perimetro cyber”, la rete di controlli di sicurezza tech di aziende e Pa essenziali per lo Stato, poi con l’Agenzia per la cybersicurezza inaugurata dal governo Draghi con l’input dell’Autorità delegata all’intelligence Franco Gabrielli e guidata da Roberto Baldoni. Uno scudo non trascurabile che insieme ad altri accorgimenti – su tutti un golden power cresciuto a dismisura durante la pandemia ed esteso alla rete 5G – permette di vigilare più di prima sulla sicurezza delle telecomunicazioni in Italia ed evitare che ci siano soggetti terzi in ascolto.

Il nodo politico però resta imbrigliato. Ed è destinato a tornare a galla, a giudicare dall’attenzione che il dossier attira ancora oggi dalle parti di Via Veneto e certamente a Washington DC..

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