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Tra dollari e petrolio. Ecco come Mosca gioca le sue ultime carte

Strozzata dalle sanzioni, l’ex Urss vara una stretta sulle riserve in valuta straniera delle banche, così da favorire il rublo e spingere le imprese ad allontanarsi dalle monete dei Paesi nemici. Ma ce n’è anche per l’oro nero

La Russia e le sue banche, schiacciate come non mai dalle sanzioni dell’Occidente, le stanno provando tutte pur di non soccombere. Al punto da ricorrere ad alcune mosse, certamente subdole, ma evidentemente frutto di un certo nervosismo. Tanto per cominciare, c’è la questione delle valute. Tutti, o quasi, gli istituti della Federazione hanno delle riserve in valuta estera, soprattutto dollari ed euro, al fine di permettere ai cittadini di prelevare denaro in moneta straniera.

Ora, la Banca centrale russa, l’istituzione che per prima ammise i devastanti effetti delle sanzioni sull’economia e la finanza russa, ha deciso di alzare il costo di tali riserve al 7,5%, abbassando al contempo i tassi sulle riserve in rubli. Questo significa che accedere a denaro in valuta straniera sarà molto più oneroso per le famiglie e le imprese, soprattutto con quelle che ancora scambiano con l’estero. L’obiettivo è quello di scoraggiare il ricorso alla moneta dei Paesi nemici di Mosca, sostenendo in questo modo il rublo.

Tale modifica, che è per certi versi storica visto che è la prima volta che il governo russo disallinea in coefficienti tra le diverse valute, entrerà in vigore dal 1° aprile. Va detto che nel 2022, i russi hanno quasi dimezzato i loro risparmi in valuta estera, pari a 3,88 trilioni di rubli (50 miliardi di dollari), proprio a causa dei rischi derivanti dalle sanzioni. Mentre la quota dei depositi in yuan è cresciuta nel corso dell’anno fino a raggiungere l’11% dell’intero stock di valuta estera in pancia alle banche.

Non è tutto. Ce ne è anche per l’oro nero. E anche qui si fa ricorso a qualche trucchetto. La Russia è infatti pronta a prorogare il taglio temporaneo della produzione di petrolio fino alla fine di giugno per influenzare i mercati petroliferi globali. Anche qui lo scopo c’è: meno petrolio vuol dire prezzi più alti e dunque maggiori entrate per Mosca. Le uniche, a dire il vero, ormai possibili. E pensare che il 2023 della Russia non poteva cominciare peggio, dal momento che l’unica certezza dell’ex Urss, la vendita di petrolio e gas ai Paesi amici, a cominciare dalla Cina, sembra vacillare.

La prova? Nei numeri diffusi dallo stesso ministero delle Finanze poche settimane fa. Le entrate del governo russo nel settore del petrolio e del gas sono letteralmente crollate a gennaio, contribuendo al più grande deficit di bilancio per il primo mese dell’anno almeno dal 1998. Più nel dettaglio, le entrate fiscali da petrolio e gas sono diminuite del 46% a gennaio rispetto a un anno fa, mentre c’è stato un aumento del 59% della spesa a causa della guerra in Ucraina. La combinazione di questi fattori ha portato la Russia a registrare un deficit pubblico di 1.760 miliardi di rubli (25 miliardi di dollari).

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