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Cara Europa, sulle auto endotermiche così non va

Da Bruxelles arriva la spinta finale verso il phase-out delle componenti Ice: se l’obiettivo “zero emissioni” è sacrosanto e doveroso da raggiungere, una brusca accelerazione rischia di compromettere quanto di buono stiamo già facendo. Tuttavia, è proprio l’Italia il Paese che può salvarci da pericolosi “balzi in avanti”. L’intervento di Riccardo Pilat

Alla fine, il tanto pubblicizzato “semaforo rosso” ai motori endotermici pare essere arrivato.

Il Parlamento europeo ha infatti adottato il testo con il quale si prevede un brusco phase-out nel lustro 2030-2035 culminante con il bando totale alle vendite di veicoli con unità Ice proprio a partire dal 2035 – con poche eccezioni inerenti al trasporto pesante prolungate al 2040 –.

Il nuovo regolamento strizza l’occhio quindi alla “neutralità climatica” da raggiungere, anche in linea con il piano Fitfor55, entro il 2050.

Nonostante i relatori del testo celebrino come storico il voto presso la “casa degli europei”, è forse la retorica ultras in materia che preoccupa maggiormente: una accelerazione troppo repentina rischia infatti di compromettere, in tema di mobilità sostenibile, quanto di buono è stato finora fatto, danneggiando al contempo le nostre economie e deprimendo una situazione occupazionale che, specialmente nel nostro Paese, da decenni si cerca faticosamente di sanare.

Una misura “disorientante”

Così è stata definita dal ceo di Smet – società tra le leader europee nel settore del trasporto merci e della logistica – Domenico De Rosa, ai microfoni di Radio Alfa.

Possiamo comprendere il punto di vista di De Rosa: una misura che polverizza un settore storico, e dall’importantissima rilevanza economica nel Vecchio continente, che incide sulle oltre 3,33 miliardi di tonnellate di emissioni, a livello globale, soltanto per l’1,4%. Francamente ci sembra un po’ pochino per definire un tale cambiamento, dati alla mano, “storico” da un punto di vista ambientale.

Sempre estrapolando un pezzo della trasmissione radiofonica: “Qualsiasi attività di innovazione ed evoluzione verso una mobilità differente necessita di tempi maggiori rispetto al timing imposto dal Parlamento Europeo – aggiunge De Rosa – perché non è un problema semplicemente dei consumatori, ma di tutto il mondo produttivo che deve costruire un percorso, deve progettare e commercializzare”.

Proprio questo scollamento tra realtà fattuale e obiettivi, seppur nobili per quanto poco incisivi pragmaticamente, rischia di squalificare soltanto l’industria europea, sempre più attaccata dalle emergenti – e realmente inquinanti – industrie asiatiche e cinesi. Il rischio è quello di perdere rilevanza sullo scenario globale senza ridurre effettivamente il livello di emissioni, danneggiando le stesse aziende che ad oggi investono pesantemente su forme energetiche alternative e a zero emissioni.

Dipendenze energetiche, di nuovo

Il documento europeo, nel delineare la strategia carbon free del futuro dell’automotive continentale, cita esclusivamente l’elettrico come forma energetica del futuro.

Un atteggiamento miope che, oltre a non considerare gli impatti ambientali che la produzione e lo smaltimento delle batterie comporta – senza contare la penuria di risorse necessarie alla loro produzione – , tarpa le ali ai programmi di ricerca e sviluppo che, molti produttori automobilistici, hanno sviluppato negli ultimi decenni: ne sono un esempio quelli incentrati sul biogas, sull’idrogeno, sui biocarburanti e sul Gpl.

Un tema che è stato toccato dalla filiera automotive italiana e delle associazioni di categoria in una lettera aperta indirizzata al governo e alla Rappresentanza italiana presso l’Unione europea, suggerendo un approccio aperto al dialogo, mirante ad includere le molte altre tecnologie disponibili nella strategia di decarbonizzazione comune.

Un tema questo che abbraccia meccanismi molto validi, eppur poco conosciuti, come quello del crediting system, strategie che tengono conto dei benefici ambientali addizionali dei carburanti rinnovabili e a basse emissioni. Soluzioni di transizione che favorirebbero uno sviluppo dei suddetti prodotti, necessarie per contribuire da subito alla riduzione delle emissioni di gas a effetto serra nei trasporti su strada. Per inciso, una soluzione che ridurrebbe in pochissimo tempo quelle stesse emissioni oggetto del testo discusso al Parlamento europeo: ma nel 2023 e non nel 2035, e senza massacrare le nostre economie, già provate da lunghi periodi di crisi globali di portata decennale – Covid-19, crisi geopolitiche e crisi energetiche su tutte –.

Più dialogo e meno ricerca del mediatico ampliando gli orizzonti

Riportando l’attenzione sul Belpaese, le filiere industriali affini al mondo dei trasporti, oltre ad essere riconosciute come all’avanguardia a livello globale, hanno tutte le capacità, se affiancate e assistite, di contribuire in maniera vincente alle sfide che i cambiamenti climatici ci obbligano ad affrontare: una filiera che può far vanto delle proprie capacità innovative, tecnologiche e professionali, capacità che vengono soltanto depresse se costrette ad affrontare una transizione violenta.

La complessità delle sfide e delle rivoluzioni che sorgono dalla transizione energetica non possono che dimostrare come sia impossibile pensare di poter risolvere uno dei più grandi nodi della storia umana grazie al contributo di una sola tecnologia, ancora in piena evoluzione dal punto di vista tecnologico e logistico e che difficilmente raggiungerà la piena maturità entro il 2035.

La posizione del governo alla proposta di Bruxelles

Nonostante le preoccupazioni all’orizzonte, la posizione del governo italiano – e tedesco – dà una cauta speranza agli operatori della filiera automotive: grazie alle pressioni dei due giganti politici europei, infatti, la decisione finale del consiglio è stata rinviata.

Proprio il ministro del Mimit, ministero del Made in Italy, ha rilanciato un dialogo più costruttivo, denunciando un approccio che rischia soltanto di compromettere la competitività delle nostre industrie a scapito di mercati inquinanti, sovvenzionati slealmente dai governi locali.

Un’Italia capofila, secondo le parole di Adolfo Urso, e che punta a guidare un crescente numero di Paesi scettici nei confronti delle misure draconiane auspicate dall’Assemblea di Bruxelles: proprio il responsabile del dicastero del Mimit ha ribadito la necessità di diversificare le nuove fonti energetiche, includendo nel mix, oltre all’elettrico, anche biofuel ed idrogeno.

Una soluzione, amica dell’ambiente, e che ci ripara dall’essere ostaggio di una sola fonte energetica. Una soluzione che riconosce, finalmente, i meriti della filiera italiana, all’avanguardia nello sviluppo di tecnologie alternative tra le quali proprio quei carburanti biologici e le fonti ad idrogeno.

Le dichiarazioni del governo – che ha sottolineato la necessità di sovvenzioni ed investimenti europei a forme alternative all’elettrico – adesso passano alla prova dei fatti: l’Italia dovrà essere capace di porsi alla guida di una nuova visione pragmatica e green dei trasporti, collaborando con la Germania e, soprattutto, la Francia, instaurando un asse strategico che possa finalmente definire una bussola industriale realistica.

Per una vera – e soprattutto sicura, energeticamente – transizione green. Oltre ai buoni propositi, abbiamo bisogno più che mai di fatti.

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