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Mercoledì, l’irresistibilità della reietta

La serie di Tim Burton mette in scena la rivincita degli “strani”. Il suo successo svela la dinamica nascosta dei rapporti di potere all’interno della cultura di massa

Lasciatevi sedurre, senza provare a resistere. Guardate “Mercoledì”, tifate per questa ragazzina “nera” e arrabbiata, a cui non importa di piacere, né di essere diversa e impopolare. Per “Mercoledì” l’obiettivo è rovesciare il tavolo, scardinare il sistema del potere costituito. Mercoledì, la più stramba della famiglia Addams, e sicuramente la più ribelle della famiglia più mostruosa di sempre, va a un college per “reietti”, che non a caso si chiama Nevermore.

Anche perché chi ti tiene in un posto per bambini normali dopo che, per vendicare un atto di bullismo, hai messo dei piragna dentro la piscina dove nuota il bullo? Pallida, austera, asociale e solitaria, ma molto molto carina, la protagonista ha gusti sinistri e deliziosamente lugubri. Anche in una scuola popolata da reietti, “ragazzi speciali” per il politically correct, “mostri” detto in maniera diretta, Mercoledì tanto è diversa da non essere in grado di integrarsi in nessun gruppo. Finalmente qualcuno che se ne frega di avere un’immagine “diritta”, non dipende dai social, anzi non ha proprio il telefonino, e che fa il contrario di compiacere gli altri… una ribelle.

Siete di sicuro già appassionati, perché è così che funziona la dialettica della cultura pop. Ha successo quello che libera piacere, come nel motto di spirito. E magari così si possono dire anche cose che in un discorso esplicito sarebbero politicamente troppo radicali. L’importante è che non sia dichiarato e che i protagonisti – qui c’è il vero rimosso – siano belli e benestanti. Quello che è nuovo, deve alleviare, non fa venire mal di pancia: su Netflix puoi essere cattivo, puoi essere di qualunque colore e orientamento sessuale, ma non puoi essere brutto e tanto povero e disperato da non essere attraente.

Tim Burton in questo è geniale, non tutti andranno oltre il messaggio manifesto della serie. Una ragazzina che si mette sempre di traverso e che sa solo una cosa: non vuole diventare come sua madre. Un po’ come nel cartone “Galline in fuga”, in quanti sono arrivati a leggerci una critica definitiva e assoluta al patriarcato? Eppure tutti, anche senza aver letto il teorico queer Jack Halberstam e la sua “L’arte del fallimento” (ma gli autori di Mercoledì lo hanno fatto), si sentiranno liberati dalla condanna al successo. Affrancati da quegli sciami di api del ragazzino più nerd della scuola, che in maniera parallela e totalmente democratica fanno fuori un serial killer.

Mentre vi lasciate andare, cioè mentre state pensando che Mercoledì Addams sta vendicando voi e tutti i ragazzini stritolati dalla ruota del successo, avrete la sensazione di essere tornati adolescenti, ribelli.

Ma qui occorre fermarsi. Sospendere per un attimo l’immersione. Chiedersi: che tipo di operazione sta avvenendo?

Lasciatevi sedurre, si diceva, godetevi la serie di Tim Burton, ma poi date una scorsa alle classifiche. Mercoledì è prima assoluta, dopo aver sfondato ogni record della piattaforma di streaming, compreso quello stabilito da Bridgerton di Shonda Rhymes (la showrunner di Grey’s anatomy, tanto per capirci).

E così per Mercoledì: in quanti vedranno la cultura di massa e la sua egemonia fatta a pezzi da questa ragazzina che oppone un “no” alla colonizzazione costante? In quanti vedranno in Mano, altro membro della famiglia Addams, la fedele e inseparabile incarnazione di un oggetto parziale che consente di ipotizzare una economia libidica scandalosamente fuori dall’Edipo? E chi è il colono americano che è il vero cattivo della trama horror, se non la trasposizione del maschio cisgender oppressore di tutte le minoranze?

Mercoledì mostra quello di cui c’è bisogno, ma lo disloca in un luogo che è un “mai più” e così può entrare su una delle piattaforme mainstream (Netflix). Capita che al momento contemporaneo, a nostra insaputa, una vocetta dentro ciascuno sa che, adolescente o no, siamo tutti troppo schiavi della compiacenza, dei like, e dei social che premiano e premono sulla conformità: Mercoledì è diversa! Siamo tutti un po’ Mercoledì finché questa proiezione nel negativo ci può servire a scardinare un po’ delle categorie in cui siamo ingabbiati e da cui, anziché liberarci, preferiamo distanziarci con una serie. Meglio questa che una serie su come diventare influencer, penseranno le mamme…
Perciò ecco il successo, ecco come questa serie, apparentemente su “ciò che è controcorrente”, diventa il primo titolo nel catagolo Netflix, cioè nella Biblioteca Alessandrina di questa nostra società fluida. Il punto è che la cultura maggioritaria deve andare in periferia per cogliere le novità e iniettare di vitalità un centro che rischia sempre più di implodere.

L’ennesima vittoria del mainstream sul discorso della marginalità? Un po’ sì e un po’ no. La chiave qui ce la danno i titoli delle singole puntate, cioè le chiavi sono sempre ai bordi del testo, nel paratesto. E cosa ci dicono i titoli delle puntate?
L’unica parola che ricorre sempre è “triste”, traduzione italiana dall’inglese “Woe”.

Woe è qualcosa di più di triste, è qualcosa che ha a che fare con la catastrofe naturale, non è solo uno stato d’animo, è più che altro un evento che può scatenare e liberare una negatività che prima era rimossa o dissociata. “Woe” è il bisogno di cambiamento catastrofico che se non avviene a livello psichico rischia di avvenire nella realtà esterna: è un po’ quello che è stato il Covid e che sintomaticamente subito dopo è ancora la guerra in Ucraina.

Mercoledì è sempre triste, e la sua presenza porta sempre al “Woe”. Dunque, come un evento che rappresenta se stesso, un segno che non indica ma “fa” e agisce un cambiamento e come tale introduce il proprio codice di trasformazione.

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