Fuori dalle critiche senza pietas, gettate lì per segnare una presenza polemica, torniamo sommessamente a domandarci: proprio non esisteva un modo più sobrio per raccontarlo? E stavolta, se c’è colpa per le sbavature, davvero non è di Berlusconi. La rubrica di Pino Pisicchio
L’umana pietas innanzitutto. È un sentimento universale, che si addice agli esseri viventi dotati di intelligenza, di parola e di anima. È anche una cifra che connota le civiltà e che viene da molto lontano: basterebbe una lettura dei poemi omerici per capirne il senso soprattutto quando si rivolge ai nemici morti in battaglia.
Il punto, però, è un altro e riguarda una sola domanda: qual è la misura giusta della pietas per evitare che diventi esercizio di corriva agiografia? Perché dal ricordo dovuto a chi, bon gre’ mal gre’, ha impregnato di sé un trentennio di storia politica italiana, al celebrazionismo stile nord coreano, è solo un passo se manca il senso della misura.
In questo quadro appare davvero straniante l’impeto dell’onoranza funebre che ha circonfuso la scomparsa di Silvio Berlusconi, travolgendo l’intero sistema dei media italiani. Passi pure per Mediaset, ovviamente, che onorava il suo fondatore e padrone – peraltro va segnalata la professionalità con cui si è rispettato il palinsesto: non un solo programma di prime time è saltato, a beneficio degli inserzionisti – ma tutto il resto è apparso quanto meno fuori dal segno di una ragionevole misura.
A cominciare dal servizio pubblico che ci ha fatto assistere ad un unico infinito talk-show, annunciato con un “Ciao Silvio” ancora più confidenziale delle di lui reti, che ha straripato oltre i confini della sobrietà per toccare vette confinanti con la categoria dell’esagerazione. Come l’alacre grattatura del fondo dei barili alla ricerca di interviste che ci hanno proposto cabarettisti di piccola fama dimenticati da Dio e dagli uomini, ex giardinieri che, con candida innocenza hanno dichiarato, alla domanda quando l’ha visto l’ultima volta, una risposta inconsapevolmente paradossale: “qualche anno fa”, gente passata lì per caso ed altre rinunciabili cose.
E che dire delle 27 pagine del Corrierone e delle 24 di Repubblica, escluso, ovviamente, il dorso locale con la dovuta registrazione del contrimento dei politici locali? Teniamo lontano da queste righe il giudizio politico e il pregiudizio ideologico che pure ha alimentato i commenti di qualche noto giornalista orfano ormai della sua ragione di vita che poneva al centro, appunto, dosi quotidiane di veleno antiberlusconiano. Restiamo solo al modo della celebrazione mediatica e continuiamo a domandarci: non abbiamo un po’ esagerato? Vero è che, tra i lasciti berlusconiani c’è una comunicazione che si è nutrita a piene mani di televisione del dolore, adottata con entusiasmo anche in Rai con numerosi e generosi esempi, e in fondo la nuova governance del servizio pubblico ha restituito ad un maestro in questi giorni ciò che ha ricevuto come insegnamento.
Vero è che ad un ex capo di governo si addice, in base ad una legge del 1987, il funerale di Stato, del cui onore civile, peraltro, può essere insignita anche una personalità non inclusa nel circuito delle istituzioni, ma che “abbia illustrato la Nazione italiana nel campo delle scienze, delle lettere, delle arti, del lavoro, dell’economia, dello sport e di attività sociali” (fu il caso di Alberto Sordi, di Alda Merini, di Mike Bongiorno, ma anche del cardinal Martini e, più recentemente al giovane ambasciatore Attanasio trucidato in Congo e al presidente del Parlamento europeo Sassoli). Dunque la presenza nel Duomo di Milano delle massime cariche dello Stato e anche degli avversari politici, non può che essere salutato come un gesto di civiltà dovuto e, insieme, di umanità apprezzata.
Fuori, però, dalle critiche senza pietas, gettate lì per segnare una presenza polemica, torniamo sommessamente a domandarci: proprio non esisteva un modo più sobrio per raccontarlo? E stavolta, se c’è colpa per le sbavature, davvero non è di Berlusconi.