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La rete, gli adolescenti e il vulnus della scuola. Morcellini legge il caso TikTok

L’episodio drammatico della bambina di dieci anni morta per una sfida su TikTok. Cosa si nasconde dietro l’abisso dei social e nell’utilizzo smodato che fanno i ragazzini delle piattaforme digitali. La legislazione imbrigliata, la scuola intempestiva e i genitori senza una guida. Il caso Sicomero sotto la lente d’ingrandimento di Mario Morcellini

Per scendere nell’abisso della disperazione ci si mette in punta di piedi. Quella di Antonella Sicomero, la bimba di dieci anni morta asfissiata probabilmente per una folle sfida ispirata dal web, è una storia drammatica che nasconde un mondo. Una giovane vita sacrificata sull’altare della galassia digitale. Il direttore dell’alta scuola di comunicazione dell’Unitelm La Sapienza Mario Morcellini premette che “la pietà impedisce di spingersi in valutazioni sul comportamento dei familiari della vittima”. Il fatto che Antonella abbia consegnato gli anni più belli della pre adolescenza ai social però ci deve interrogare.

“È incredibile pensare che i social assorbissero così tanto tempo di una vita che doveva essere invece concentrata nella scuola – spiega il docente – . E, il fattore tempo, è intuibile dalle svariate identità digitali che la bambina aveva tra Facebook, Instagram e TikTok”. Questa miriade di profili “la dice lunga su come la vita digitale avesse totalmente sequestrato l’attenzione della bambina. Generalmente questo fenomeno lo definisco ‘dedizione digitale’”.

Una sorta di sostanziale rovesciamento degli equilibri. “Sta accadendo che nell’età in cui tutti i bambini, anche quelli culturalmente più deboli, consideravano la scuola e l’istruzione il baricentro della loro vita, il social network e il web si stanno via via sostituendo diventando il vero e proprio centro di gravità di queste giovani vite”.

Questo processo, rimarca il docente, “è accelerato vertiginosamente per via del fatto che nessuno è in grado di aiutare i genitori a spiegare il fenomeno di questa dedizione digitale da parte dei loro figli”. L’educazione, d’altra parte, “ha bisogno di tanto tempo per sedimentarsi. Così come l’istruzione che l’istituzione scolastica fornisce. Il social e il web invece sono immediati”.

Comunque a detta di Morcellini, siamo tutti colpevoli. Ma soprattutto siamo in ritardo. “La decisione del Garante della Privacy di ‘sospendere’ il social è sacrosanta – chiarisce l’accademico – eppure è tardiva. Così come sono tardivi i provvedimenti legislativi che riguardano queste tematiche”.

Ma non è solo colpa delle istituzioni. “Talvolta – rileva Morcellini – le istituzioni stesse non dispongono di strumenti adeguati per intervenire in maniera tempestiva”. A questo si aggiunge chi si limita “a esaltare la rete, senza coglierne i potenziali aspetti devastanti, agitando lo spettro del ‘bavaglio’ o della censura verso chi ha in animo di regolamentare il mondo dei social”.

La verità però è che “una regolamentazione troppo prudente, rischia di fare vittime”. Il vulnus però, è la scuola. Il docente è convinto che “se ci fosse stato uno straccio di educazione digitale nella formazione di questa bambina, forse avrebbe avuto potuto adottare un comportamento diverso”.

Anche in questo frangente, però, si presenta un problema di equilibrio. “Se è vero come è vero che i genitori sono impreparati a gestire un certo tipo di dinamiche che riguardano i loro figli, è altrettanto vero che non esiste una struttura in grado di guidarli”. Quindi, tra le discipline scolastiche, “dovrebbe essere introdotta la ‘media education’. Una materia che veicoli un messaggio preciso: il piacere digitale può diventare una disciplina di studio”. Forse però, osserva il docente, “prima di tutto andrebbe reintrodotto il concetto di limite: se si continuerà a vantare diritti dimenticandosi dei doveri, c’è il rischio concreto che questi episodi possano moltiplicarsi in modo esponenziale”.

Ma cosa stava pensando Antonella nel momento in cui ha deciso di imbattersi nella sfida che l’avrebbe portata alla morte? Ma, soprattutto, che consapevolezza c’era di quello che stava compiendo e della pericolosità del ‘gioco’? “C’era una piena consapevolezza della sfida, competizione con altri – risponde Morcellini – . Queste cose le si fanno per raccontarle”. Va detto però che “questa sete di cimentarsi con sfide che fanno sentire più grandi e competitivi, non vanno di pari passo con la possibilità e la consapevolezza del rischio di morire”. Tanto più che “poco prima del fatto – dice il professore – Antonella aveva chiesto al padre la cintura per un gioco che le sarebbe stato fatale. Non è normale che una bambina si rivolga al padre chiedendo una cintura per porre fine alla sua vita”. No, non è normale.

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