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Ritratto di Francesco, un Papa “rivoluzionario”

Cinque anni sono più della metà dell’intero pontificato di Benedetto XVI. In questi giorni, su giornali e siti online, scorrono come fiumi i bilanci di questo pontificato. I grandi cambiamenti fatti e vissuti, le sfide aperte, i passi falsi. Prevale l’agiografia, ma non sono taciute le defaillances che hanno assestato più di un colpo alla stagione bergogliana.

UNA RIFORMA IRREVERSIBILE

Fare bilanci è sempre complicato così come lo è l’affermare con sicurezza che una nuova era si sia aperta. Di ere nuove se ne aprono sempre, solo la storia poi dirà se i cambiamenti più o meno rivoluzionari resteranno. Di certo è che il disegno portato da Francesco è quello di rendere “irreversibile la riforma della Chiesa”, come ha detto ancora una volta uno dei suoi più ascoltati consiglieri, il cardinale Oscar Maradiaga, coordinatore tra le altre cose del C9 incaricato proprio di studiare questa grande riforma.

CAMBIARE LA CURIA

Proprio la riforma della curia è stata il cavallo di battaglia delle prime settimane del pontificato. L’esigenza, dopotutto, era stata manifestata nelle congregazioni generalizie del pre Conclave: serviva cambiare, rinnovare, rivoluzionare tutto. Fare entrare aria dalle finestre, diceva più d’un porporato. Così fu istituita la speciale consulta degli “otto” (poi diventata dei “nove” con l’aggiunta del segretario di stato, il cardinale Parolin). E però, cinque anni dopo, di risultati visibili ce ne sono ben pochi. Qualche operazione di maquillage, tra accorpamenti, fusioni e nuovi dicasteri. Scarsi segnali di quella rivoluzione da più parti annunciata come evento epocale che avrebbe cambiato volto alla curia romana.

ANDARE AL LARGO SENZA SAPERE QUAL È LA META

Il punto è proprio questo: c’è stato un fraintendimento su quel che il Papa intende per “rivoluzione”. Già questo è un termine che non gli piace – l’ha detto più volte – e se malinteso può causare qualche problema nel valutare la portata del “cambiamento” in atto. La vera “rivoluzione” Francesco l’ha annunciata pochi mesi dopo l’elezione ed è la messa in moto della Chiesa verso le periferie. Non solo geografiche, sarebbe troppo banale: ma le periferie sociali e spirituali. Un andare al largo senza sapere qual è la meta. L’importante, ha ripetuto come fosse un mantra in cinque anni, è generare processi. Uscire dai propri arroccamenti, dalle ridotte che nulla (o poco) hanno ormai da dire. Aprire la Chiesa, trasformandola in un ospedale da campo chiamato a sanare le tante ferite visibili nell’umanità sofferente. Ecco il Sinodo sulla famiglia, ecco quello sui giovani. Un processo lineare, chiaro di cambiamento. Un percorso che però può scatenare anche forti contrapposizioni capaci di diventare opposizioni aperte. Lo si è constatato in questi anni, soprattutto in merito al Sinodo sulla famiglia, chi a favore della comunione ai divorziati risposati e chi contro. Spia di un “conflitto” ben più ampio e complesso, tra due visioni della Chiesa non collimanti.

LE DIVISIONI E I DUBBI

Una divisione che è andata ampliandosi in questi cinque anni, con cardinali che pubblicamente hanno espresso il proprio dissenso dalla linea ufficiale del Papa – si pensi alla lettera con i famosi Dubia promossi dai cardinali Brandmüller, Burke, Caffarra e Meisner – e altri che, sempre pubblicamente, hanno risposto ai primi. Un confronto serrato, non sempre giocato sul campo del bon ton ecclesiastico. Francesco ha lasciato fare, senza intervenire in modo netto a sostegno di questo o di quel fronte, pur essendo chiara la sua volontà di aprire le porte di una Chiesa che troppo si era chiusa in se stessa.

PEDOFILIA E FINANZE

I nodi che c’erano prima dell’elezione del 2013, però, sono ben lungi dall’essere sciolti. Il pontificato di Benedetto XVI fu travolto, nella sua parte terminale, da due scandali, quello legato all’opacità nelle finanze della Santa Sede e quello della pedofilia nel clero. Ratzinger agì subito, spesso lontano dal clamore mediatico, per sanare la situazione (specie sul fronte della guerra alla pedofilia). Cinque anni dopo, nonostante le commissioni create ad hoc e la più volte annunciata “tolleranza zero”, si assiste ancora a campagne che accusano il Pontefice regnante di aver fatto poco o nulla per estirpare il male (il caso del vescovo cileno Barros è emblematico). Quanto alle finanze, anche qui subito si costituirono organismi speciali per ristrutturare il settore, cambiando uomini e aggiungendo nuove figure. Tre erano i pilastri della riforma: la segreteria per l’Economia (affidata al cardinale australiano George Pell), il Revisore generale e uno Ior ristrutturato. La segreteria per l’Economia è senza il suo superiore, tornato in Australia per difendersi nel processo in cui è accusato di aver insabbiato casi di pedofilia, il Revisore generale è stato accompagnato alla porta e lo Ior vede qualche suo dirigente essere messo alla porta senza troppe spiegazioni.

L’INDIZIO PER CAPIRE IL FUTURO

Francesco, però, mai ha detto che tutto sarebbe cambiato subito. Il suo disegno è rendere la riforma irreversibile e un dato è emblematico in tal senso: le creazioni cardinalizie. Con questo pontificato è cessata – si vedrà se per sempre – la prassi delle cosiddette “sedi cardinalizie”, le città che per tradizione avevano un arcivescovo porporato. Elemento che in passato aveva favorito un certo carrierismo, con prelati che speravano di essere promossi a queste sedi così da ricevere la berretta. Bergoglio ha scelto diversamente: uomini presi alla fine del mondo (Tonga, Mauritius, Mali, Laos) o inclini alla sua visione di Chiesa (vale per tutti il cardinale Blase Cupich, arcivescovo di Chicago). Niente da fare per i titolari di Philadelphia, Los Angeles, Venezia, Torino. Un indizio per impedire che la rivoluzione possa essere azzerata in un prossimo futuro.

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