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Perché un dottorando inglese è detenuto per spionaggio negli Emirati Arabi?

Uno studente inglese dell’Università di Durham è detenuto negli Emirati Arabi Uniti da cinque mesi: arrestato il 5 maggio senza precise accuse, Matthew Hedges, trentuno anni, è ora incolpato di spionaggio. Hedges, che sta seguendo un dottorando sulle relazioni internazionali degli Emirati, era a Dubai per il field work, il lavoro sul campo fatto di colloqui, contatti, interviste, previsto dal suo piano di studi.

Si occupava di guerra in Yemen: il conflitto dove emiratini e sauditi stanno guidando una coalizione di volonterosi paesi sunniti intervenuti a difesa del vecchio governo amico di Sanaa detronizzato dall’avanzata degli Houthi – ribelli indipendentisti del nord del Paese, che hanno conquistato una larga fascia di territorio che si affaccia sulle rotte strategiche del Mar Rosso. L’intervento militare in Yemen è iniziato tre anni fa, ma Emirati e Arabia non sono riusciti a fermare i ribelli nonostante la superiorità tecnica militare: per i due paesi del Golfo, il conflitto ha un valore geopolitico enorme, perché gli Houthi, una setta sciita, hanno contatti con l’Iran e dunque lo Yemen è un altro dei campi di battaglia dove lo scontro tra le potenze regionali mediorientali si svolge a distanza.

La guerra in Yemen è un argomento delicato a Riad e Abu Dhabi, perché durante i bombardamenti si sono verificati tantissimi incidenti e danni collaterali – forse dovuti all’inadeguatezza dei due eserciti del Golfo, forse alla foga e alla poca discriminazione dei bersagli. Migliaia di vittime civili, che creano molte critiche internazionali e imbarazzo tra le corti saudite ed emiratine,  impegnate invece in progetti visionari per espandere le proprie economie, differenziarle dalle risorse energetiche, aumentare la loro influenza globale.

Hedges forse raccoglieva informazioni per scrivere un report su come era vissuto o assorbito l’impatto del conflitto negli Emirati: probabilmente ha toccato temi tabù. Il clima è pessimo, spiega una fonte di Formiche che spesso viaggia nel Golfo e che per ovvie ragioni sceglie l’anonimato. “È possibile che qualcuno abbia visto le domande dell’inglese come troppo insistenti e dunque pensato effettivamente che era lì per raccogliere dati di intelligence; oppure è tale il livello di paranoia e terrorismo psicologico che qualcuno si è spaventato, ha avuto paura che essere visto parlare con Hedges potesse far rizzare qualche antenna, ha temuto per la sua incolumità e lo ha denunciato alla polizia”.

Il ricercatore inglese era a Dubai anche perché là vive il padre, per lavoro: arrivato all’aeroporto per rientrare nel Regno Unito, il 5 maggio, è stato fermato dalle autorità e portato ad Abu Dhabi: un’analista delle tematiche del Golfo, anche questo anonimamente, ci fa notare che il trasporto è tutt’altro che scontato. “Normalmente gli emirati hanno una propria autonomia, ma il fatto che sia stato spostato sta a significare che ormai Abu Dhabi ha monopolizzato l’intero apparato emiratino”; è lì che muove le sue tele Mohammed bin Zayed, principe ereditario, ministro della Difesa e motore che ha convinto i sauditi a seguire le dinamiche aggressive con cui stanno aumentando la loro assertività nel Golfo in funzione anti-Iran – su tutte, la guerra in Yemen.

La moglie di Hedges è stata intervistata da diversi media inglesi, e ha raccontato che le autorità emiratine permettono contatti saltuari, sempre complicati da qualche bega burocratica, alla famiglia. Dice di averlo trovato tremolante, paranoico, in condizioni fisiche non buone, con in testa manie di persecuzione e istinti suicidi che prima non aveva mai avuto. Dice che lo hanno tenuto spesso in isolamento e soprattutto spiega che all’inizio non erano state formalizzate accuse contro di lui: poi s’è scoperto che era incolpato di spionaggio. Un’accusa che spesso viene usata contro chi è considerato scomodo all’interno dei sistemi dittatoriali.

L’aspetto interessante, spiega una terza fonte inglese con accesso agli ambienti diplomatici, è che quel genere di trattamento sia riservato a un europeo, “di più, a un britannico: una volta avere il passaporto del Regno Unito era una garanzia, ora le dinamiche di interazione stanno cambiando: è legittimo, ci mancherebbe, ma è un dato molto rilevante. E il Foreign Office sembra che stia avendo un ruolo molto marginale nella vicenda”. È come se chiunque voglia compiere atti violenta si senta legittimato a farlo, tanto prima o poi le conseguenze riuscirà a farle assorbire.

La storia di Hedges ne ricorda altre – il caso Regeni per esempio – e si inquadra in un momento tetro: il 2 ottobre, il dissidente saudita Jamal Khashoggi, giornalista del Washington Post che aveva criticato spesso Riad per il lavoro svolto in Yemen, è entrato dentro al consolato saudita a Istanbul e da lì si sono perse le sue tracce. Qualche giorno fa i cinesi hanno preso e incarcerato il capo dell’Interpol, Meng Hongwei, accusandolo di corruzione: era sparito dal 25 settembre dopo che era stato richiamato a Pechino. A marzo il servizio segreto militare russo, il Gru, ha provato a eliminare con un gas nervino un ex operativo disertore, che aveva passato informazioni agli inglesi. A luglio, a Parigi, è stato sventato un attentato che avrebbe dovuto colpire un evento del Mujahedeen-e-Khalq, più noto come Mek, gruppo di opposizione iraniana: per i francesi dietro alla tentata strage c’erano i servizi segreti di Teheran.

È quello che succede quando si abbandona una politica estera basata sui valori e si segue una linea “transnazionale”: si crea il caos, dice l’analista Sigurd Neubauer su Twitter – il riferimento è al ruolo globale che su temi di diritti civili finora svolgevano gli Stati Uniti, mettendo dei paletti non superabili.

 

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