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Piuttosto che rottamare, meglio valorizzare

“Rottamazione”, secondo il dizionario Gabrielli, significa ”provvedimento legislativo o strategia politica tesa a incoraggiare la demolizione di autoveicoli e motoveicoli tecnologicamente superati, ritenuti dannosi per l’ambiente”. Non aggiornatissimo, purtroppo. Tuttavia, la strategia della demolizione di un sistema “dannoso” per l’ambiente pare essere in gran voga, e caratterizzata da un criterio di selezione della nuova classe dirigente apparentemente fondato su criteri anagrafici e modi accattivanti, piuttosto che su idee forti.

Perché aldilà di alcune buone individualità (distribuite trasversalmente e senza mete preferite, nell’arena politica) si assiste oggi, sepolte le ideologie, a un fenomeno di annacquamento dei contenuti che sconforta gli appassionati e annebbia gli elettori nel migliore dei casi. Anzitutto perché sembra che i “rottamatori” non contemplino uno scenario in cui l’Italia, dopo aver ceduto parecchia sovranità dal 1957 ad oggi, non possa permettersi di non calcolare il cd. rischio politico. In secondo luogo, perché a fronte di ciò, il teatrino dei giovani politicanti rifugge più volentieri in battaglie civili sui diritti più disparati (v. ad esempio il manifesto un neo-circolo milanese di stampo pretenziosamente giacobino, a supporto della causa di “rottamazione”). E ne hanno ben ragione, dal loro punto di vista, giacché questi temi accendono gli animi degli elettori, molto più dello scudo anti-spread o delle forniture energetiche dalla Russia.

Sul piano elettorale, tuttavia, questo processo non pare dare i frutti sperati. Come sottolineato qualche tempo fa da Francesco Galietti su Formiche, il dato principale da considerare ad esito delle ultime elezioni amministrative è stato la crescita dell’astensionismo e l’ulteriore, e marcata, botta di sfiducia verso la politica.

Dunque mi permetto una provocazione, in veste di semplice osservatore: perché non immaginare, in luogo della rottamazione, un processo di “valorizzazione”? Una selezione della classe dirigente non più fondata su entusiasmi “demolitori”, su desideri di cambiamento “adesso”, bensì su un pragmatismo intelligente. Un pragmatismo che parta da un’analisi, una diagnosi del malato e una successiva prognosi, condita dalle previsione sul decorso della malattia, sui tempi di ripresa.

Per quel poco che il Paese può fare autonomamente, uno schema del genere ha certamente bisogno di riferirsi a persone sagge e formate, con la visione data dall’esperienza e non solo. Un opera di raccordo tra costoro e le migliori teste in circolazione – di tutte le generazioni, beninteso – può segnare un nuovo passo perché responsabilizzerà chi davvero è in grado di assumersi la leadership.

Mi auguro non sia una pia illusione.

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