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II – Vinciamo la gara e Ricardinho torna in Cile

Non sapevo se fossi riuscito a distogliere Ricardo dal chiodo fisso che l’affliggeva e a riportarlo nei binari della razionalità. Binari, appunto, visto che lavoravamo a una Metro.
Sembrava più sereno. Conveniva con me sul fatto che in Italia, così come anche in Spagna, dove lui aveva creato dal nulla una società simile alla mia, di lavori importanti nel campo delle infrastrutture non ce ne sarebbero stati per un bel po’ di tempo. L’Europa, tutta, era in crisi.
E così, anche se lo vedevo di tanto in tanto con la testa fra le nuvole, preparammo con l’impeto e l’attenzione necessaria l’offerta tecnica ed economica e consegnammo tutto l’incartamento entro i tempi prefissati. Non rimaneva che attendere.
Lui, per la verità, forse per cercare inconsciamente di allontanare la prospettiva di tornare in Cile, provò a darsi da fare anche cercando opportunità in Spagna e in altri paesi Europei, in particolare nel nord dell’Europa, dove stava per partire la progettazione di un importante tunnel sottomarino, quello che avrebbe dovuto collegare la Germania alla Danimarca, il Femern.

Passarono poco più di due mesi da quando avevamo consegnato le offerte. Una mattina, la medesima busta con tanto di francobollo cileno, arrivò sia in Italia che in Spagna. L’offerta tecnica aveva ricevuto il massimo del punteggio. La missiva di accompagnamento ci informava che la settimana successiva sarebbero state aperte le buste con le offerte economiche. Solo allora avremmo scoperto se Ricardo sarebbe stato costretto a far ritorno a Santiago.
Telefonai subito a Ricardo, con il contenuto della busta appena ricevuta ancora tutto sparpagliato sulla scrivania. Mi rispose, senza neanche dire pronto, canticchiando “cavigghia fina t’arruvina”. Gliel’avevo insegnato io quel detto. Capii che era di buon umore. Infatti, m’invitò per quel week end a Madrid.
-Vieni, dobbiamo goderci questo successo, anche se parziale – . Gli dissi che avrei prenotato il giorno stesso. E che ero contento anch’io. In fondo l’offerta economica non dipendeva tanto da noi quanto dai costruttori con cui eravamo in raggruppamento. Noi, il nostro dovere, l’avevamo fatto. E in fondo, anche se fosse ritornato in Cile, volevo sperare che non si sarebbe ricacciato dentro al turbine della nina mala.

Fu un fine settimana indimenticabile, quello. Visitammo il Prado e poi alla sera Ricardo mi portò a mangiare in un ristorante dove potei gustare la più buona bistecca di toro di tutta Madrid. Trascorremmo il sabato sera di pub in pub come i vecchi tempi. Importunammo tutte le chiche che ci passarono a tiro. Ricardo, che quando beve diventa più estroverso, mi metteva sempre in mezzo costringendomi a fargli da spalla. Mi costrinse a prendere un microfono dal cantante del piano bar e ad andare a recitare un pezzo del Cyrano a una ragazza bellissima che stava da sola in un divanetto. Ricardo era fissato con sta’ storia del Cyrano e siccome sapeva che io mi ricordavo interi pezzi a memoria, mi costrinse a fare la parte di Cyrano in modo che lui si facesse bello come Cristiano agli occhi della Rossana sul divanetto. La signorina, un pezzo di figliola che illuminava la penombra di quel privè, mi aveva però dato la sensazione di trovarsi lì da sola per puro caso. E certamente per un limitato intervallo di tempo. Lei, però, con la civetteria tipica di tutte le donne, non è che cercò di sottrarsi a tutta quella messinscena che stava attirando l’attenzione di mezzo locale. Anzi. Si mise in bella posa puntandoci i due occhi, nerissimi e che luccicavano come le lambuche sotto i canestrini quando venivano colpiti dai colpi dello strobo, che parevano i fanali alogeni di una potente berlina, mostrando un sorriso bianchissimo tra due labbra carnose e rossissime. Al che, come nel più scontato confondersi di vita e letteratura, a Cyrano e Cristiano toccò andare di fioretto più che di poesia. Anziché l’apostrofo rosa tra le parole “ti” e “amo”, ci ritrovammo al pronto soccorso a farci mettere apostrofi color carne sugli zigomi. Il fidanzato della signorina era molto amico del gestore del locale. E così dopo qualche minuto, mentre lei se la rideva di gusto del corteggiamento cavalleresco, la cavalleria arrivò davvero. Il fidanzato di lei, accompagnato da due buttafuori del locale, ci pestarono per benino nel retro del locale.
Io gli avevo chiesto esplicitamente di picchiare sulle costole per evitare il viso. Ma loro non capirono l’italiano. E così si limitarono a colpirci sul volto.
Ad ogni buon conto, picchiati e felici, tornammo a casa verso le 6 del mattino. Con la conferma che “cavigghia fina t’arruvina”.

La domenica, di comune accordo, decidemmo di non uscire. Anche perché dopo quei cazzotti ci sentivamo come se fossimo caduti dal secondo piano.

Il lunedì, andammo in ufficio, nella sede della società di cui Ricardo è uno dei soci. La sua era una spin off universitaria. Gli spin off o le start-up nate all’interno dei parchi tecnologici e dei campus universitari non sono altro che società private, che vengono costituite per iniziativa di giovani ricercatori che cercano di costruirsi un futuro al di fuori dei percorsi accademici. Scelta dettata, nella maggior parte dei casi, non per rispondere al sacro fuoco dell’imprenditorialità, piuttosto per via del fatto che le Università, dopo decenni di baronati e di cure ingrassanti caratterizzate dall’assunzione di tantissimi impiegati e funzionari, si vedevano costrette a ridimensionarsi, ovviamente a scapito dei nuovi entranti.

In ufficio, ricontrollammo i numeri dell’offerta economica e provammo a fare due ragionamenti sulle reali possibilità di successo. Ci davamo 2 a 1. Che non era poi così male. Non dovevamo far altro che aspettare l’indomani pomeriggio per conoscere l’esito.

Ricardo, quella sera, mi chiese un po’ d’informazioni sull’Italia e sulla Sicilia di cui io ero originario e verso la quale sapeva nutrissi un nostalgico e idealistico legame. Gli dissi che il nuovo premier, quello giovane, stava cercando di cambiare le cose. Che certamente molti dei suoi proclami sembravano più ambiziosi che concreti, ma che stare dalla parte dei suoi critici finiva comunque con il favorire le forze di conservazione del paese che non avevano certo bisogno di altri aiuti.
Parlammo del fatto che in un quadro così complicato era sempre più importante fare squadra con altre società, localizzate in tutto il mondo, votate all’eccellenza e all’innovazione che potessero, senza la necessità di dover ricorrere a cospicui capitali finanziari, sostenersi saltando al rimorchio dei grossi general contractors che avrebbero messo i muscoli necessari per vincere appalti di interesse a livello mondiale. Non bisognava dipendere dai singhiozzi di nessuna politica di nessun paese Europeo.
Gli portai l’esempio fresco di attualità di come In Italia la magistratura, nell’esercizio legittimo, fino a un certo punto, delle sue funzioni finiva con diventare una delle più dure forze di conservazione capace di fare politica attraverso sentenze che stavano cambiando radicalmente la storia economica e industriale. Come i casi Thyssen, Ilva e Enel dimostravano. Dove la sicurezza sul luogo di lavoro, la salute dei cittadini che vivevano vicino a grandi complessi industriali diventavano i feticci rispetto ai quali sacrificare quel poco di tessuto industriale che rimaneva in Italia, con la scomparsa del quale i numeri della disoccupazione sarebbero diventati assolutamente ingestibili. L’anticamera di una nuova terribile stagione di emigrazione.
Cercai di spiegargli, almeno per come li avevo capiti io, da quanti settori strategici l’Italia era riuscita ad uscire, in particolare da moltissimi di quei settori ad alto tasso di tecnologia, gli unici che potevano fare da volano allo sviluppo di un paese che in un cui un giovane su due non ha prospettive reali di trovare un lavoro.
Della Sicilia, poi, avevo veramente ben poco da aggiungere. La Regione era ormai al collasso finanziario. Una situazione cronica figlia di stagioni sbagliate. Di cui era persino impossibile fare una narrazione o una sintesi tanto ormai tutto era ormai diventato antonomasia e luogo comune. Una terra bifronte: mafia e antimafia; autonomia e sussidio; povertà e scialacquo; turismo e immondizia; il mare, infinito delle coste, e la carenza delle riserve di acqua potabile.

A un certo momento, interrompendomi, a bruciapelo, gli chiesi: – Ma se dovessimo vincere, che hai intenzione di fare una volta arrivato a Santiago? – .
– Ho intenzione di cercarla. Almeno una volta – Così rispose. – Quindi sei tranquillo non perché non ci stai più pensando, ma perché hai preso la decisione di tornare a cercarla – .
– Già, se vinciamo, vorrà dire che il destino mi rivuole lì. Devo assecondare questa coincidenza. In fondo noi ci occupiamo di gallerie, di ciò che scorre e si sviluppa sotto terra e che deve servire di aiuto alle attività e alla vita in superficie. Se tornerò in Cile, vuol dire che il destino sta scavando per me il suo specialissimo percorso sotterraneo per meglio indirizzare le mie scelte in superficie – . – Direi che è proprio una metafora da ingegnerinho del minchio – . Ricordati che i lavori in sotterraneo riservano tante soddisfazioni ma anche tante rogne.

– Ma cosa speri di ottenere? Metti che si è sposata ed ha avuto dei bambini. Metti anche che l’incontri per strada al mercato. Che fai entri nella sua vita pensando che lei pensi a te come tu pensi a lei? Non ti pare che in sei anni anche lei, anche se bellissima e affascinantissima, avrebbe potuto sentire la tua mancanza? Perché non ti ha mai cercato? -.
– Certo, certo. Hai ragione. Parli come un libro stampato. Sembri Gramellini che risponde a la Posta nel cuore -.
– Ma quale Massimo Gramellini ! Chiedere consiglio a lui di fimmine e core è come chiedere al morto il fazzoletto per piangere ! – .
Il mio è solo buon senso. Ad ogni modo. Domani si vedrà. Io la gara la voglio vincere. Se tu ti vuoi andare a fare mangiare la testa, cercheremo di risolvere la cosa a tempo debito – .

Vincemmo la gara. Per 1 punto e mezzo. Tutti i rappresentati del raggruppamento erano stati convocati per la firma del contratto quindici giorni dopo a Santiago del Cile nella sede della Direzione dei Trasporti della capitale.

Tornai in Italia lasciando Ricardo apparentemente sereno. Quella serenità mi preoccupava. Era risoluto a ritrovare la sua nina mala. E non avrebbe atteso l’inizio del progetto vero e proprio. Si sarebbe messo sulle sue tracce già in occasione del viaggio a Santiago per la firma del contratto. Ne ero sicuro.

Nelle due settimane che precedettero il viaggio in Cile, lo sentii poche volte, quasi esclusivamente via email. Si trattava però di questioni di servizio e/o legate ad alcuni progetti in corso.
Ci incontrammo a Francoforte, quindici giorni dopo. Ci imbarcammo sul volo Lufthansa per Santiago. Durante il volo non fu molto loquace ma trovammo comunque il tempo di scherzare, al nostro solito.
Dato che io ero un ingegnere aeronautico, la pantomima che mettevamo in scena era più o meno sempre questa. Lui mi chiedeva informazioni sull’aereo su cui stavamo volando e sulla sua sicurezza. Sui rischi di una traversata oceanica. Parlavamo in inglese per avere il più vasto uditorio nei voli internazionali e rendere così la gag ancora più divertente. A un certo punto, mentre gli elencavo alcune storie dell’aviazione e alcuni incidenti che avevano permesso di costruire la sicurezza di cui noi godevamo, il che generava già una certa ansia tra i vicini di posto che non potevano fare a meno di ascoltare, guardando dall’oblò gli facevo: – guarda come sono imbarcate le ali. Stiamo volando in completa instabilità flesso torsionale. Che miracolo dell’ingegneria! – . A quel punto c’era sempre uno dei vicini che iniziava a fissare o me o Ricardo che fingeva uno sguardo allampanato e che mi rispondeva di essere molto preoccupato. Una volta una signora di una certa età chiese all’hostess se le ali erano ancora due!

Arrivammo a Santiago all’ora di pranzo, anche se per via del fuso per noi era ora di cena. Giunti in hotel, ci accordammo che non saremmo usciti quella sera. E che avremmo cercato di riposare il più possibile per recuperare il jet lag in modo da arrivare in forma per l’indomani, il giorno della firma del contratto.
Il mattino seguente ci saremmo rivisti nella sala dove offrivano le colazioni. Ci saremmo visti alle 7.30.

Avevo già preso il caffè da un dispenser e mi ero accomodato su di uno dei tavoli quando dalla finestratura alla mia destra che dava sul viale principale su cui si affacciava l’hotel, mi accorsi di riconoscere la figura di Ricardo, vestito come l’avevo lasciato la sera prima, che stava facendo ritorno in hotel. Mi rabbuiai. Eccolo, pensai tra me, me. Non ha neanche disfatto la valigia.

[continua]

I – episodio

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