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La minaccia pachistana sulle elezioni in Afghanistan

Pubblichiamo un articolo dell’Ispi

Le elezioni presidenziali che si terranno il 5 aprile in Afghanistan rappresentano per alcuni versi una svolta. Hamid Karzai, che ha guidato il paese per oltre 12 anni attraverso le tappe della road-map di Bonn, giunge al termine del suo secondo mandato e si vede quindi costretto a cedere il passo a un nuovo presidente. È la prima volta nella storia del paese che ha luogo un trasferimento di potere tramite lo strumento elettorale da un presidente a un altro. Il suo successore – i più “gettonati” sono Abdullah Abdullah, Ashraf Ghani e Zalmay Rassoul – dovrà gestire una situazione molto difficile: l’Isaf non protegge più il paese, le relazioni con gli Stati Uniti e con il vicino Pakistan sono tese, e le trattative con l’opposizione anti-governativa procedono a rilento, senza registrare alcun successo e seguendo agende contrastanti.

A rammentarcelo vi è la vicenda di Motasir: a febbraio Agha Jan Motasir, che tra il 1996 e il 2001 aveva ricoperto la carica di ministro delle Finanze dell’emirato talebano ed è in seguito stato espulso dalla leadership del movimento, ha radunato a Dubai alcune figure dell’opposizione favorevoli al dialogo, ma è stato prontamente sconfessato da un comunicato ufficiale talebano.

La frammentazione dell’opposizione è indubbiamente uno dei maggiori ostacoli ai negoziati. Un altro è il ritiro dell’Isaf e il drastico ridimensionamento della presenza Usa, interpretati dall’opposizione come un successo che farà uscire l’insorgenza da una fase di stallo e le permetterà di avanzare. Sulle trattative ha pesato negativamente anche la diffidenza di Karzai verso il Pakistan, accusato di perseguire una via autonoma al negoziato dettata dai propri interessi nella regione e di essere poco credibile in quanto fonte principale dell’instabilità in cui versa l’Afghanistan.

Le relazioni bilaterali , è noto, non sono mai state cordiali. Kabul, che non riconosce la linea confinaria, ha volto a proprio favore la tradizionale porosità del confine sostenendo nei primi anni Settanta i guerriglieri beluchi pakistani. Quella stessa porosità è risultata funzionale negli anni successivi a Zulfiqar Ali Bhutto, che ha sostenuto e ospitato nelle aree pashtun pakistane i dissidenti islamisti afghani; e poi a Zia ul-Haq, che in quelle stesse aree ha addestrato e aiutato i mujaheddin. Oggi il ruolo delle autorità pakistane, militari e civili, nell’insorgenza afghana rimane ambiguo: il confine continua a essere attraversato da militanti e armi che alimentano l’opposizione anti-governativa, con la connivenza di ambienti criminali legati al contrabbando e di elementi delle forze di sicurezza e rappresentanti dello stato. Ad alimentare l’ambivalenza pakistana verso i talebani afghani contribuisce l’attivismo indiano in Afghanistan, motivato presumibilmente dal desiderio di accedere alle risorse e ai mercati centro-asiatici e far fallire il progetto di profondità strategica perseguito dal Pakistan sin dagli anni Settanta.

Il rapporto tra l’Afghanistan e il Pakistan dipenderà in parte dalla volontà del nuovo presidente pakistano e del governo pakistano di Nawaz Sharif d’inaugurare una nuova fase di collaborazione,che sia espressione di comuni interessi economici, decisione che a sua volta dipenderà in larga misura dall’evoluzione del rapporto tra Pakistan e India. Sarebbe ingenuo tuttavia immaginare che una svolta possa dipendere dalla mera volontà di questi governi.

Leggi l’articolo completo qui

Elisa Giunchi, Associate Senior Research Fellow dell’ISPI e docente di Storia e istituzioni dei paesi islamici, Facoltà di Scienze Politi-che, Università degli Studi di Milano.

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