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Aldo Moro, un professore e i suoi studenti

Il 23 settembre del 1978, nel giorno che sarebbe stato il sessantaduesimo compleanno del politico d’origine pugliese, la moglie, Elenora Chiavarelli, scomparsa il 17 luglio 2010, scrisse un messaggio alle persone che, nel dramma sofferto, erano state vicine a lei e alla sua famiglia: “Vorrei dirvi – si legge in quella lettera- che il grande amore di Aldo Moro sono sempre stati i bambini, i ragazzi e i giovani;che la sua più importante gioia era stare in mezzo a loro, che lo scopo della sua vita era costruire per loro una società più umana in cui ognuno potesse essere sé stesso”.

Nell’anno del centenario della nascita dello statista e politico e dei 70 anni della Repubblica italiana democristiano, uno specifico ciclo di seminari è stato organizzato dall’Archivio storico della Presidenza della Repubblica: “L’Italia repubblicana: origini e sviluppo di una democrazia. Uomini e donne dell’Italia repubblicana”

Oggi nel Palazzo Sant’Andrea, in via del Quirinale a Roma, si tiene il primo di questi seminari: “Aldo Moro nel centenario della nascita: una vita e un percorso di democrazia”, rivolto a docenti e allievi dell’ultimo anno degli istituti di istruzione secondaria superiore e a studenti e dottorandi di storia contemporanea.
Se Moro non fosse diventato un politico, sarebbe stato per tutta la vita un bravo insegnante. Lo erano stati anche i suoi genitori e la moglie “Noretta” era convinta che quella fosse la sua vera vocazione.

Ad onor del vero il Presidente, fino al giorno del rapimento, si divise tra impegno politico e le lezioni all’Università: insegnava Istituzioni di diritto e procedura penale presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”.

Il 16 marzo 1978 aveva invitato alcuni studenti ad assistere al discorso di insediamento del governo guidato da Giulio Andreotti e quei ragazzi appresero davanti al portone di Montecitorio la notizia del rapimento del loro docente e dell’assassinio dei cinque uomini della sua scorta. In quello stesso giorno, nella Fiat 130 blu su cui viaggiava, tra borse e giornali, verranno ritrovate delle tesi di laurea, alcune macchiate di sangue, controfirmate dai suoi assistenti Saverio Fortuna e Franco Tritto. Moro avrebbe dovuto discuterle nella sessione programmata in università e prevista subito dopo lo svolgimento della seduta parlamentare. Anche nei giorni della prigionia pensò ai suoi allievi. In una lettera, rinvenuta solo il 9 ottobre del 1990 nel covo brigatista di via Monte Nevoso a Milano, il Presidente sollecitò la moglie a chiamare Fortuna affinchè portasse “il suo saluto affettuoso agli studenti e il rammarico di non poter andare oltre nel corso”.

Alcuni dei suoi avversari, quand’era Presidente del Consiglio, avevano diffuso ad arte la voce che il premier presiedeva a tarda ora il Consiglio dei ministri, perché si svegliava con fatica. In realtà, le riunioni in CdM erano fissate a mezzogiorno, anziché alle nove, proprio perché Aldo Moro teneva lezione all’Università dalle 9.30 alle 10.30 e, poi, si tratteneva solitamente a discutere con gli studenti fino alle 11.45.

Oreste Leonardi, il maresciallo dei carabinieri che lo seguiva come un’ombra dall’inizio degli anni Sessanta, si preoccupava per questo modo di fare, perchè la percezione del pericolo terrorista era diventata ormai frequente per gli uomini della scorta. Alcuni brigatisti, che lo pedinavano, arrivarono più volte (come confessarono agli inquirenti anni dopo) a pochi metri dal loro obiettivo, non solo all’interno dell’università, ma anche nella parrocchia di Santa Chiara, in piazza dei Giochi delfici, dove Moro si fermava a pregare, appena uscito dall’abitazione di via Trionfale. Il Presidente amava stare a contatto diretto con le persone ed ammoniva cordialmente chi lo consigliava a comportarsi diversamente. Addirittura, quando qualche studente si assentava dalle lezioni, per problemi di salute,o personali, Moro andava a trovarlo in ospedale, o a casa. Per gli allievi che frequentavano il suo corso di studi, tenuto nell’aula XI della facoltà romana di Scienze Politiche, organizzava visite negli istituti carcerari e negli ospedali psichiatrici dove i detenuti scontavano la pena o periodi di cura. Era lui stesso ad accompagnarli.

Anche nell’ultimo articolo, mai pubblicato, il Presidente guardò al mondo giovanile, anche se nelle prime battute pareva che scrivesse di altro. Quel testo, ancora in attesa di correzioni, venne ritrovato nella macchina, assaltata dai terroristi in via Fani. Era un “pezzo” destinato al “Giorno”, il quotidiano a cui collaborava con continuità dal 1972. Lo statista analizzò il 1968 come l’anno degli studenti che sono stati da sempre presenti nel suo universo culturale: “Con il risveglio delle coscienze –si legge- con il fiorire di atteggiamenti autonomi, con la contestazione di espressioni del potere e di cristallizzazioni politiche, con la riscoperta della società civile, con la valorizzazione della diversità dei giovani e del loro diritto a contare e cambiare”. Insomma, Moro in quell’articolo parlò di sé stesso, come la persona che aveva cercato di capire la contestazione giovanile: “Vi deve essere accanto alla capacità di valorizzare –concluse- quella di incanalare, difendendo il bene supremo della libertà da quella esasperazione che la compromette, la lega e la rende, in definitiva, impossibile. Spetta ai democratici, togliendo spazio e spinta ad ogni iniziativa autoritaria, salvaguardare il patrimonio di profonda consapevolezza dei valori umani che si è venuto accumulando e che sta alla base dei processi di liberazione in corso. Evitando con giustizia e vigore quegli errori fatali per i quali, talvolta, si sblocca un avanzamento civile che appariva ineluttabile, dischiudendo la via a momenti oscuri che un più vigile controllo di difficili e vitali processi democratici avrebbe potuto evitare”.

Gli ultimi capoversi scritti da uomo ancora per poco nello stato di libertà. Poi, sarebbero venute le lettere dalla prigionia, concepite in una condizione di costrizione e solitudine, ma ancor di più caratterizzate dai valori di verità, libertà e giustizia.

E’ sempre rimasto sé stesso. Quello, insomma, che, nel maggio 1946, non ancora trentenne, scrisse: “Se io non posso fare giustizia tra i popoli (e mi brucia l’onta di questa ingiustizia che si perpetua aiutata dall’ipocrisia), posso però fare giustizia nei rapporti umani che dipendono personalmente da me, dando almeno in questo ristretto ambito a ciascuno il suo”.

I docenti, gli studenti e gli studiosi, coinvolti nel seminario odierno ed in quelli che seguiranno, avranno modo di dare un contributo originale alla ricerca sulla figura di Aldo Moro che è parte fondamentale della storia dell’Italia repubblicana.

Quel professore, che amava così tanto stare tra giovani, ne sarebbe stato lieto.

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