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Vi racconto il papocchio sui vitalizi degli ex parlamentari

Chi ha attribuito il diritto di giudicare i loro predecessori ai componenti di un Parlamento eletto con una legge dichiarata incostituzionale, per di più messi in lista dai vertici dei loro partiti (come mai non si parla più di Parlamento di “nominati” come si faceva ad ogni piè sospinto nella passata legislatura?), transitati più volte in gruppi diversi alla ricerca di un posto al sole più comodo e (forse) sicuro? Non solo questi nuovi parlamentari (spesso provenienti dalle liste dei disoccupati presso i Centri per l’impiego) hanno cercato di cambiare gran parte della legge fondamentale dettata dai Padri costituenti, ma – si parva licet – ora si arrogano l’arbitrio di stabilire di quanto dovrebbe essere diminuito il trattamento che gli ex parlamentari stanno percependo in attuazione delle regole vigenti al momento della cessazione del loro mandato.

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L’abolizione retroattiva dei vitalizi e il ricalcolo degli importi corrisposti secondo il metodo contributivo vigente per tutti i lavoratori (ormai questo sistema di calcolo è diventato una specie di cilicio con il quale i “privilegiati della Casta” scontano i loro peccati) è assunto come un supremo atto di giustizia, tanto che una proposta di legge in tal senso – a prima firma di Matteo Richetti del Pd – sarà probabilmente approvata tra pochi giorni dalla Camera (al Senato, poi, si vedrà). Ci sono, però, alcune questioni di carattere tecnico che sembrano essere sfuggite all’insaziabile sete di vendetta.

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Ci si arriva leggendo alcuni brani della relazione di accompagno dell’AC 3225 : “La determinazione del trattamento previdenziale (…) è effettuata con lo stesso sistema, di tipo contributivo,vigente per i lavoratori dipendenti, ossia moltiplicando il montante individuale dei contributi per i coefficienti di trasformazione fissati dalla legge n. 247 del 2007 (in realtà vi è stato un successivo aggiornamento, ndr). Anche il montante contributivo individuale è determinato alla stregua dei lavoratori dipendenti, applicando alla base imponibile contributiva l’aliquota vigente per i lavoratori dipendenti delle amministrazioni statali (…). Tale aliquota è stata determinata la prima volta dalla legge Dini e attualmente, a seguito di diversi interventi integrativi, per i lavoratori dipendenti delle amministrazioni statali è pari al 33 per cento, di cui l’8,8 per cento a carico del lavoratore e per la restante parte a carico del datore di lavoro”.

Prima domanda: chi sono i datori di lavoro? La Camera e il Senato, ovviamente. Dal momento che i lavoratori italiani hanno scoperto l’esistenza del calcolo contributivo (applicato in tutto o in parte o addirittura non applicato in alcuni casi) solo a partire dal 1° gennaio 1996 quale sarà la decorrenza dell’operazione di ricalcolo e trasformazione? Da quella data, comune a tutti i lavoratori, oppure dal primo giorno in cui il malcapitato si è seduto sui banchi del Parlamento? In verità non si comprenderebbe il motivo per cui gli ex parlamentari dovrebbero essere trattati peggio di quei lavoratori a cui saranno equiparati. Delle due l’una: se si parte dal 1996 che si fa dei vitalizi erogati in precedenza? Se invece si intende risalire ex tunc, spingersi indietro fino a dare la caccia ai vitalizi di antica memoria (magari già commutati in trattamenti di reversibilità) perché usare, per gli accrediti, l’aliquota del 33% e non quelle inferiori, di volta in volta in vigore, negli anni in cui gli “ex” di oggi erano i parlamentari di ieri? Forse si vuole addolcire la purga? La Dolce Euchessina al posto dell’olio di ricino.

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