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Le “penne al vetriolo” che hanno raccontato la Prima Repubblica nel libro di Alberto Mazzuca

Chi l’ha detto che la storia la scrivono soltanto gli storici, di professione  o dilettanti poco importa? È una balla colossale. Se l’assunto può valere per l’indagine sugli eventi del passato, recente e remoto, non vale per la storia che si dispiega giorno per giorno, sotto i nostri occhi e, spesso, nonostante le nostre distrazioni. Di questa storia sono testimoni e narratori i giornalisti. E quanto più capaci sono, tanto più le loro descrizioni risultano appassionate – magari perfino distorte dai pregiudizi, dalle convinzioni o dalle diverse formazioni culturali: ma si  sa le opinioni non sono mai neutre come vorrebbe qualche anima bella – al punto da creare comunità di lettori fedeli che si riconoscono nelle loro analisi, negli anatemi che lanciano, nelle invettive che nutrono i giornali di riferimento e, qualche volta, perfino negli entusiasmi che riescono a muovere nella società.

A dire la verità questa attitudine che nel passato ha fatto la fortuna di giornalisti dotati oltre che di intelligenza e cultura anche del gusto della scrittura (alcuni sono da considerare veri e propri letterati) sta scemando. In linea con i tempi sciatti in cui viviamo, il giornalismo segue l’andazzo. Ve ne sono, ovviamente, di giornalisti in grado di attrarre l’attenzione dei lettori e diventare addirittura autori di culto, più per i libri che pubblicano che per gli articoli che propongono a platee purtroppo sempre meno vaste per il semplice fatto che si legge di meno, l’editoria cartacea, come si dice, è in crisi, le testate chiudono mentre sembra che il web spopoli: non è raro trovare nei cosiddetti giornali on line “firme” che raccontano con la stessa intensità dei colleghi che scrivono sui giornali tradizionali storie coinvolgenti o propongono semplici analisi che per l’immediatezza dello strumento risultano talvolta perfino più efficaci.

Comunque la si la pensi in merito alla questione appena accennata, si converrà che sarebbe un crimine contro la memoria e l’intelligenza dimenticare quel giornalismo che non si porta più, se non in minima parte, che ha saputo “fare” la storia. In particolare quella dei decenni appena trascorsi che giornalisti di razza, appartenenti a tutte le confessioni politiche, hanno quotidianamente raccontato con editoriali, commenti, corsivi, reportage, inchieste. A loro, perlopiù ignorati dalle generazioni più giovani, ha dedicato ben settecento pagine Alberto Mazzuca, grande giornalista economico lui stesso, indagatore di intricate vicende storiche, biografo di personaggi contemporanei e del passato, finissimo ritrattista, con un libro destinato a restare soprattutto a beneficio di chi voglia farsi un’idea di come siamo arrivati ad oggi, alla scombiccherata vita pubblica che frustra le aspirazioni perfino dei più incalliti ottimisti: Penne al vetriolo. I grandi giornalisti raccontano la Prima Repubblica (Minerva edizioni, pp.700, € 19,50).

Il volume di Mazzuca non è un’antologia, come  si potrebbe essere indotti a ritenere dal titolo, ma una vera e propria storia politica dell’Italia repubblicana dal 1945 agli inizi degli anni Novanta, con incursioni nella più stretta attualità. L’autore, piuttosto che allineare fatti e personaggi, fa parlare i giornalisti che si sono occupati delle vicende che hanno caratterizzato quasi mezzo secolo di vita pubblica e, con sorpresa, vengono fuori punti di vista assai interessanti che contribuiscono ad una migliore comprensione del recente passato. Da Giovannino Guareschi a Leo Longanesi, da Giovanni Ansaldo a Indro Montanelli, da Ennio Flaiano a Mario Pannunzio, da Arrigo Benedetti a Giuseppe Prezzolini, da Enzo Biagi a Eugenio Scalfari, da Oriana Fallaci ad Arrigo Benedetti, a Giorgio Bocca,  Giampaolo Pansa, Vittorio Feltri, Massimo Fini (e molti altri naturalmente  si  potrebbero aggiungere), Mazzuca rilegge la seconda metà del secolo scorso attraverso i loro articoli non in sequenza antologica, ma citandoli e collegandoli come tessere di un mosaico. Giganteggiano in questo volume, anche per la mole degli scritti “saccheggiati”, due grandi penne, quelle di Gianna Preda e di Mario Melloni, più conosciuto come Fortebraccio. Una di destra, anzi fascista, l’altro prima democristiano e poi comunista; la prima inarrivabile polemista del “Borghese”, il secondo corsivista ed articolista della domenica de “L’Unità”; l’una allieva di Longanesi e poi sodale di Mario Tedeschi (altra brillantissima penna del giornalismo di destra), l’altro reinventato da Maurizio Ferrara al giornale fondato da Antonio Gramsci.

La Preda e Fortebraccio, secondo Mazzuca “rappresentano i due estremi politici in cui si agita la gracile democrazia italiana, sono un po’ come il ‘Visto da destra’ e il ‘Visto da sinistra’ dei tempi de ‘Il Candido’ di Giovannino Guareschi, il papà di don Camillo e Peppino”. In fondo erano entrambi lo specchio di un’Italia reale, riconoscibile, diversissima da quella odierna che, di fatto, non produce più contese simili, ma sembra sottomessa ad una violenza a-ideologica intrisa di risentimenti e lontana dagli ideali. Tra la Preda e Fortebraccio, tante “penne al vetriolo” capaci di dare un senso agli umori degli italiani con Prezzolini critico dei connazionali, osservati con il cannocchiale per trent’anni dall’America e poi dalla più vicina Lugano, inclini a difendere la propria libertà disprezzando quella degli altri; con Longanesi corrosivo assertore di una democrazia nata con il vizio d’origine dell’antifascismo e dunque una non-democrazia; con Montanelli acido nei confronti di partitocrati e “sinistri” con il portafogli a destra, e via seguitando…

Comunque, queste “penne al vetriolo”, a giudizio di Mazzuca, hanno avuto il non piccolo merito “di aver denunciato i guai che da subito sono emersi nel Paese nella quasi indifferenza generale”. Probabilmente se i loro allarmi fossero stati tenuti in debita considerazione non ci troveremmo oggi a ballare sul Titanic. E’ una storia amara, dice l’autore, “perché documenta, al di là di ogni possibile dubbio, la miseria intellettuale della nostra classe dirigente”.

E su questo, credo, si possa essere tutti d’accordo.

 

(Minerva edizioni, pp.700, € 19,50).

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