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La Cina non sia miope, la Bri deve essere più “aperta” per arrivare in Europa. L’analisi di Fardella

Per Bruxelles la nuova Via della seta è una manovra che divide l’Europa, depredando il mercato dei suoi asset strategici e non offrendo alle aziende europee alcuna reciprocità in termini di accesso al mercato cinese. “In questi primi anni la Bri non sembrava attribuire all’Europa un ruolo speculare a quello di Pechino”, commenta a Formiche.net Enrico Fardella, professore di Storia delle relazioni internazionali alla Peking University, la più antica e prestigiosa università cinese. Ma oggi, in un momento di contrazione dell’economia e di razionalizzazione degli investimenti esteri, la Cina ha più bisogno dell’Europa per sostenere la Bri e ciò potrebbe avviare una nuova fase. A fine aprile, in occasione del secondo Forum ufficiale della Bri a Pechino, capiremo se una tendenza più “plurale e aperta” della Bri si manifesterà o meno. “Se dovesse farlo i timori di una sovversione globale da parte cinese saranno certamente attenuati. Da Europei dovremmo temere ogni globalismo fabbricato altrove se esso non ci include come meritiamo”. Il fondatore del Centro di Studi di Area sul Mediterraneo da cui è scaturito la piattaforma di ricerca ChinaMed, commenta con Formiche.net portata e scenari della nuova Via della seta dopo l’annunciata partecipazione dell’Italia al Belt and Road Forum di Pechino in cui il nostro Paese potrebbe annunciare la propria adesione alla Belt and Road Initiative.

Fardella, oggi si parla di una nuova Via della seta. Di cosa si tratta?

La Belt and ‘Road’ il corridoio marittimo che collega i porti cinesi con quelli dell’Oceano Indiano e del Mediterraneo. Con quali obiettivi? Nel 2011 gli Stati Uniti hanno spostato a est il loro centro strategico trasferendolo dal Medio Oriente al Pacifico e la Cina ha risposto con una ‘marcia verso l’ovest’ per evitare uno scontro suicida con gli Stati Uniti e conquistare ‘spazi’ e mercati in Eurasia. La nota capacità di sviluppo infrastrutturale acquisita dai cinesi in questi decenni di rapida crescita, gli ingenti capitali raccolti grazie alle loro esportazioni e l’esigenza di concentrare la politica industriale sulle industrie ad alto valore aggiunto spingono conoscenze, capitali e manifatture ‘leggere’ cinesi verso aree sottosviluppate la cui alta demografia li rende potenziali mercati fidelizzabili al Made in China.

Un cambio di rotta rispetto al passato?

Se la Cina di Deng Xiaoping cercava di tenere un basso profilo a livello internazionale consapevole delle sue fragilità, la Cina di Xi Jinping è una Cina diversa, più sicura e assertiva, e si sente capace di realizzare il ‘Sogno cinese’ un sogno che aspira a riportare il paese a essere ‘zhongguo’ – come i cinesi chiamano la Cina – il paese al centro del mondo. La Bri è al contempo espressione di questa ambizione e strumento per realizzarla. Bisognerebbe capire se e in che modo questo ‘sogno’ cinese è compatibile con un mondo descritto in questi decenni dall’egemonia statunitense, ossia se siamo di fronte allo scontro di due progetti egemonici antitetici destinati a scontrarsi, o se assistiamo invece a un semplice negoziato, seppur particolarmente teatrale, il cui successo graverà sugli esclusi.

Com’è l’Europa vista da Pechino?

La Belt and Road Initiative termina in Europa: sembrerebbe naturale dato che essa è il primo partner commerciale della Cina. Tuttavia in questi primi anni la Bri non sembrava attribuire all’Europa un ruolo speculare a quello di Pechino. La debolezza dell’Unione Europea causata dalla crisi economica ha ridimensionato il ruolo strategico che i cinesi attribuivano all’Europa venti anni fa. Agli occhi di Pechino l’Europa oggi è solo un mercato dove fare buoni acquisti a prezzi scontati grazie alla disponibilità dei suoi paesi membri a competere gli uni con gli altri per attirare gli investimenti cinesi. La Bri fino ad oggi ha riflesso questa tendenza creando sempre più irritazione a Bruxelles che la percepisce oggi come una manovra che divide l’Europa. Depreda il suo mercato dei suoi asset strategici e non offre alle aziende europee alcuna reciprocità in termini di accesso al mercato cinese.

La Bri potrebbe forse prendere una direzione più favorevole per l’Europa?

Oggi Pechino si trova in una fase di contrazione della crescita e razionalizzazione degli investimenti esteri, per cui il tempo degli investimenti a pioggia è finito. La guerra commerciale con gli Stati Uniti aumenta ulteriormente questo ribilanciamento degli investimenti esteri e allo stesso tempo rafforza la posizione negoziale dei paesi lungo la Bri. Ciò potrebbe aprire degli spazi importanti a paesi come l’Italia sia nel senso di una migliore qualità dell’investimento da parte cinese sia anche nel quadro della cooperazione con aziende cinesi per investimenti congiunti nella regione eurasiatica. A fine Aprile si terrà a Pechino il secondo Forum ufficiale della Bri e capiremo se questa tendenza più ‘plurale e aperta’ della Bri si manifesterà o meno. Se dovesse farlo i timori di una sovversione globale da parte cinese saranno certamente attenuati.

La cooperazione con l’Italia sarebbe quindi di aiuto?

Solo a condizione che sia realmente ‘aperta’: molte delle nostre aziende dicono che quando i cinesi parlano della Bri come un’iniziativa ‘win-win’ in realtà intendono che la Cina vince due volte. Ma io penso che la Cina, che oggi è di fatto il primo attore commerciale nel Mediterraneo, non potrà più permettersi di continuare a operare in questo modo. La Belt and Road per radicarsi e svilupparsi nel futuro dovrà saper coinvolgere. La Cina non ha veri ‘amici’ in Eurasia e se vorrà avere un ruolo proporzionale alla sua statura dovrà sapersi fare apprezzare localizzando in modo più efficace i suoi interessi. In questo quadro la cooperazione con l’Italia potrebbe essere di grande aiuto e guidare questa ‘nuova’ Bri in direzioni utili alla stabilizzazione e allo sviluppo di aree per noi estremamente importanti come il Nord Africa.

Per esempio?

Si potrebbe cominciare con un fondo italo-cinese, eventualmente aperto alla partecipazione di altri paesi. per investimenti utili alla stabilizzazione e allo sviluppo di quelle aeree.

Come si colloca in questo contesto la tregua commerciale tra Trump e la Cina?

Trump vede la Cina come una minaccia strategica per l’egemonia americana. Il commercio è solo un elemento di una manovra di contenimento della Cina più ampia determinata in prima istanza dalla minaccia che la modernizzazione militare cinese pone al dominio americano. Le richieste fatte da Trump ai cinesi all’inizio del negoziato riflettevano questa dimensione: alla Cina non si chiede solo di comprare più merci americane per riequilibrare la bilancia commerciale ma di soffocare di fatto lo sviluppo delle sue industrie strategiche che minacciano il primato americano tecnologico e militare.

Quindi?

Se Trump accetta di chiudere l’accordo focalizzandosi solo sul riequilibrio commerciale probabilmente è perché in questi mesi il costo politico della guerra commerciale è salito troppo per lui: i dazi commerciali hanno beneficato le contee americane in cui repubblicani e democratici secondo le statistiche erano testa a testa favorendo il tal modo i primi – e quindi la rielezione di Trump – alle prossime presidenziali. Ma allo stesso tempo i dazi aumentano i costi e sono pagati dai cittadini riducendone le entrate: 1.4 miliardi di dollari al mese secondo il Center for Economic Policy Research. Wall Street peraltro è cresciuta a ritmi sostenuti in queste settimane anticipando l’esito positivo dei negoziati. Forse dunque è il momento per Trump per dichiarare ‘vittoria’, capitalizzare politicamente e magari poi tornare all’attacco in una seconda fase. A fine marzo Xi e Trump dovrebbero rivedersi negli Stati Uniti per firmare l’accordo e vedremo cosa accadrà. Secondo me tuttavia l’incontro non avverrà perché in questa cornice ai cinesi converrebbe prendere più tempo possibile.

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