Ritorno a Paul Valéry. Necessariamente. In uno dei momenti più cupi della storia europea. Lo smarrimento è tale che un tuffo nella saggezza del grande poeta e filosofo francese è quasi terapeutico, una sorta di espediente per sopravvivere alla burrasca incombente. E chi non la sente arrivare, peggio per lui. Peggio, purtroppo, per tutti noi.
“Le nostre civilizzazioni sanno adesso d’essere mortali”, leggevo qualche giorno fa nei suoi celeberrimi Cahiers. La nostra, mi pare di capire, non ne è ancora consapevole. E le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti coloro capaci di scorgerla, non molti in verità, ma qualcuno c’è. Malauguratamente quelli che hanno la capacità di veder arrivare la bufera si affidano a rabdomanti della politica che con improbabili bastoncini indicano approdi che dovrebbero essere sicuri. Ma cosa c’è di sicuro quando il “travaglio dello spirito”, sempre per usare le parole di Valéry, non produce più nulla che possa mettere in forma una civiltà che si sta disfacendo?
Chiudo e riapro i Cahiers. Poi li abbandono momentaneamente portandomi dentro la malinconia generata dal profondo realismo dell’intellettuale che prevedeva la caduta, la chute, nell’insensato scontro tra borgognoni ed armagnacchi mentre attorno a loro un mondo rovinava. Proprio come a Bisanzio, mentre si discuteva del sesso degli angeli e gli eunuchi irroravano la vanità di improvvisati imperatori con le loro melliflue rassicurazioni sull’imperitura gloria che non sarebbe stata da nulla e da nessuno scalfita, gli ultimi segni di un impero nato per essere immortale – spiritualmente immortale – cedevano a barbari volitivi, forti, coraggiosi, temerari che nel cuore si portavano l’aspirazione ad essere come i Romani e quel che i Romani stessi avevano distrutto lo ricostruirono con la benedizione di una nuova religione di neri, umili uomini che piantarono le radici di una fede rivoluzionaria nel terreno ancora fertile della classicità pagana. I monaci di San Benedetto seppero vedere più lontano dei politici e dei condottieri ed individuare quale dovesse essere la fisionomia della nuova Europa, mentre l’antica sbiadiva sotto i colpi della rinuncia, della viltà, del piacere che soppiantava la virtù.
E davanti ai Cahiers chiusi apro un’altra raccolta di preziose informazioni sul nostro avvenire, formulate a ridosso della prima grande guerra civile europea da un giovane Valéry la cui intensa vita (1871-1945) gli permise di raccogliere i frutti delle sue diagnosi per concludere di aver ragionato sullo spirito europeo formulando prognosi che nessuno sembra voglia tenere in gran conto di questi tempi.
E la “la crisi della civiltà” introduce ad una considerazione del Vecchio Continente che oggi non può certo essere ottimista, come ci fa capire Massimo Carloni, curatore del volume e, per onestà intellettuale voglio ricordarlo, riconosciuto come il migliore interprete ed esegeta di un altro “pessimista” consapevole, Emil Cioran del quale ha pubblicato, premettendovi intelligenti e sapienti note, alcuni dei libri più nascosti dello scrittore rumeno-francese. Carloni, riflettendo sul “dramma dello spirito” a conclusione del composito saggio (che ritengo a tutti gli effetti “unitario”) di Valéry, scrive: “L’Europa nata abortita dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale, nelle sue varie metamorfosi d’Europa del Carbone e dell’Acciaio, dell’Energia Atomica, della Comunità Economica, e poi della Banca Centrale e della finanza, è un’avvilente parodia, un simulacro burocratico del sogno valériano. L’homo europaeus, sintesi di libertà e rigore, di immaginazione e intelligenza, di cui la Grecia ha fornito il modello perfetto e Leonardo la celebre raffigurazione, oggi è miseramente ridotto ad effige di una moneta. Mentre il Mediterraneo, da crogiolo e crocevia di civiltà, è diventato un lugubre cimitero marino où marchent des tombes… Bastano questi avvilenti segni per misurare la distanza abissale che ci separa dalle origini dello spirito europeo che abbiamo miseramente tradito”.
Lo prevedeva Valéry? Credo proprio di sì. Per concludere che “un’economia non è una società”, presupponeva che questa dovesse avere, onde evitare il rischio di deperire rapidamente, una cultura, la coscienza di una storia, una visione del mondo e della vita. La crisi dello spirito, come Jean Prévost disse, “è una magnifica orazione funebre, ma di qualcuno che non è affatto morto”. È l’europeo che vive in noi e che noi ci teniamo a tenere in vita, nonostante tutto. Chiedendoci ancora con Valéry se l’Europa resterà “queso che sembra”, vale a dire “la parte preziosa dell’universo terrestre, la perla della sfera, il cervello di un vasto corpo”. L’intellettuale che vedeva la crisi avanzare, ne dubitava forse, mettendo le mani davanti. Ma in cuor suo si augurava che l’Europa tornasse ad essere ciò che nel tempo era stata grazie al suo spirito. “Tutti i popoli che approdarono sulle sue rive – si legge nel saggio più prezioso di questa mirabile silloge che contiene spunti di meditazione che rimandano, non so perché, a quelli di Jacob Burckhardt – l’hanno fatto proprio; essi si sono scambiati merci e colpi; hanno fondato porti e colonie dove, non solo gli oggetti del commercio, ma le credenze, le lingue, i costumi, le acquisizioni tecniche, erano elementi dei traffici. Prima ancora che l’Europa attuale avesse preso le sembianze che conosciamo, il Mediterraneo, nel suo bacino orientale, aveva visto sorgere una sorta di proto-Europa”. Ed è là che oggi finisce l’Europa? Dove è sorta dal mito e dal mare e dall’amore di un dio e dalle similitudini di genti che si si sono riconosciute come originarie di un mondo ancestrale che avremmo definito indoeuropeo? No, non possiamo rinunciarci. Non è tempo per funerali, ma per rinascite. Credendoci, ovviamente.
Conservare è il presupposto per innovare. Seguendo uno spirito rigoroso, prodigio che si è riverberato nella produzione di una cultura espansiva al punto da permeante altre civiltà. Magari traendo ispirazione dal ruolo dell’Impero romano. “Esso ha conquistato per essere conquistato a sua volta. Permeato dalla Grecia, permeato dal cristianesimo, ha offerto loro un campo immenso, pacificato e organizzato; ha preparato l’area e modellato lo stampo in cui l’idea cristiana e il pensiero greco dovevano poi fondersi e combinarsi in modo così curioso tra loro”, in tempi lontani così definiva un’identità complessa il lungimirante Valéry.
Ci restano le sue parole come tracce per ritrovare la strada sulla quale incamminarci: lo spirito europeo, nella sua complessità, oltre il quale rischiamo di essere meno di niente, assistendo impotenti ad una civiltà morente.