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Infrastrutture, sì alle opere (ma non incompiute). La ricetta di Paolo Costa

Di Paolo Costa

Alla fine saranno gli investimenti in infrastrutture a far la parte del leone nel Recovery plan come destinatari del fondo europeo Next generation Eu. Il Consiglio europeo in corso ne determinerà solo, si fa per dire, l’entità e il suo riparto tra prestiti e contributi.

Investimenti in infrastrutture, dunque, e non solo in opere pubbliche, lavori pubblici. Una rivoluzione tutt’altro che nominalistica, perché i lavori pubblici valgono per gli effetti moltiplicativi di reddito e occupazione che producono nel loro farsi – “non importa cosa”, anche buche scavate per essere riempite, e, peggio ancora, “non importa dove”– mentre le infrastrutture valgono per le economie esterne che producono, una volta fatte, incrementando la produttività del sistema o per i miglioramenti di qualità della vita che i loro servizi erogano.

Alla ricerca dello sviluppo del sud, con la Cassa del Mezzogiorno, e delle aree depresse del centro-nord, o per sostenere la domanda durante le crisi più o meno cicliche, la logica dei lavori pubblici ha riempito l’Italia anche di opere incompiute, di cattedrali nel deserto, soprattutto nel ventennio 1970-1990 di gestione allegra del debito pubblico statale. Lavori pubblici che hanno prodotto infrastrutture non necessariamente utili a risolvere il problema di fondo dell’Italia: il declino pluriennale e costante della sua produttività. Si sono fatte le opere più facilmente finanziabili – autostrade invece che ferrovie, ad esempio – o quelle più facilmente approvabili – niente grandi dighe nel Mezzogiorno, altro esempio, o la vicenda infinita della Tav – ma non “solo e tutte” quelle utili e necessarie.

Oggi, forse, grazie ai vincoli di destinazione imposti dal Next generation Eu – aumentare la competitività globale dell’Ue da fondare sui pilastri del nuovo patto verde europeo e della rivoluzione digitale – e al fortunato radicamento nei trattati europei, da Maastricht in poi, della politica di costruzione delle reti transeuropee di trasporto, energetiche e di telecomunicazione, sarà possibile condizionare anche i lavori pubblici alle infrastrutture capaci di favorire un aumento della produttività del sistema. Due preziosi vincoli europei che dovrebbero finalmente portarci a concentrarci sulle infrastrutture economiche: quelle digitali, già di loro strategiche e che il Covid-19 ha reso di bruciante attualità, e poi quelle energetiche e di trasporto, entrambe declinabili in ottica green deal. A queste, da aggiungere, tra quelle sociali, “solo” scuole e università, difesa del suolo e raccolta e distribuzione dell’acqua.

L’Italia aggancerà lo sviluppo europeo post Covid-19 solo se saprà dire di no a ogni altro uso dei preziosi cofinanziamenti europei. Scelte da fare presto, nel Piano nazionale di riforma da presentare a Bruxelles a settembre, per investimenti che saranno finanziati nei prossimi sette anni. Sarebbe saggio presentare poche priorità a settembre e riservarsene una revisione sistemica da mettere però in campo subito. Nel caso dei trasporti, dando attuazione alla norma, sempre scritta (anche all’art. 201 del Codice dei contratti pubblici vigente) ma mai attuata, di inquadramento delle priorità infrastrutturali – oggi dettate solo dal volubile capriccio del principe – in un piano generale dei trasporti e della logistica, che manca da troppo tempo. Non un piano fine a sé stesso, ma il luogo dove trattare il trasporto come bene a domanda derivata, funzionale a un assetto produttivo e territoriale del Paese da troppo tempo neanche osservato.

Eppure oggi, dopo che il Covid-19 ha rottamato le città e la geografia dei mercati internazionali, l’interazione tra costi di trasporto e localizzazione, produttiva ancor prima che residenziale, è sottoposta a una rivoluzione silenziosa, da riconoscere ancor prima di governare. Senza una nuova politica di trasporto pubblico locale, per ridisegnare le città, e di una politica portuale, per reinserire l’Italia nei mercati globali, non ci sarà rilancio. Di certo a questo scopo non basta la pur utilissima estensione dell’alta velocità/alta capacità ferroviaria al sud che ha finora caratterizzato le proposte ministeriali post Covid-19.

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