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Dalle Regionali una grande occasione per la politica. Il commento del prof. Corbino

Di Alessandro Corbino

La vicenda elettorale appena conclusa ha avuto una insperata ricaduta utile. Si è aperta finalmente una riflessione di sistema. Una parte almeno dei commentatori sembra avere preso coscienza di quanto complessa sia la realtà politica italiana. E di come essa non possa più essere osservata (e dunque anche regolata) con le logiche con le quali lo si è fin qui fatto. Lo attestano per altro le distanze (clamorose come poche volte) tra sondaggi e risultati. Da Nord a Sud scopriamo tendenze che divergono significativamente dalle narrazioni alle quali siamo stati abituati. Nella dimensione e nella direzione. Reclamano un nuovo ordine.

Sapevamo abbastanza che gli assetti vigenti esigessero riforma. Ora abbiamo anche concreti elementi che ne indicano una (possibile) strada. Speriamo che la risposta “politica” (nell’insieme delle componenti che le danno concreta espressione: decisori, ma anche osservatori che ne sostengono ed accompagnano l’azione) sappia essere all’altezza delle attese. Che, per una volta, si voli alto. A partire da un’analisi dei fatti che non si fermi alle prime apparenze.

La situazione è meno semplificabile, a mio avviso, di quel che non sia emerso nelle prime reazioni. Se è vero che quel che è accaduto ha importanti tratti comuni, è vero anche infatti che esso presenta elementi di differenza, che non dovrebbero essere trascurati. È indiscutibile che i candidati “presidenti” abbiano (tutti) conseguito un risultato molto “personale” (ben oltre il contributo delle forze “tradizionali” di riferimento).

Ma non lo è altrettanto che tutti i risultati della tornata si possano giudicare alla stessa maniera. Il successo di Zaia o di Toti non ha le stesse giustificazioni socio-culturali di quelli di De Luca o di Emiliano. Così come il risultato di Giani ha a sua volta giustificazioni ulteriormente distintive. I raggruppamenti a sostegno (che hanno accompagnato i vari successi) non si sono formati con le medesime logiche.

E le vittorie di Giani, di De Luca e di Emiliano – pur maturate tutte nello stesso campo (centro-sinistra) – hanno fondamenti che appaiono significativamente diversi. Espressioni tutte di un rifiuto dei territori di essere “oggetto” di una competizione con obbiettivi (almeno anche) ulteriori (il governo nazionale), esse si distinguono molto tuttavia nelle motivazioni specifiche. Giani non ha raccolto un voto “populista” (e senza colore), come all’evidenza hanno raccolto invece De Luca ed Emiliano, al successo dei quali ha contribuito decisivamente un elettorato tutt’altro che di sinistra (nella tradizione e nei costumi).

Sia chiaro. Non sto esprimendo giudizi di valore. Sto invitando solo a riflettere. Le elezioni regionali hanno dato, certo, plastica rappresentazione ad una realtà che non può più essere governata attraverso gli strumenti istituzionali attuali. Ma esse non ci dicono ancora quali possano sostituirli efficacemente.

In ragione, in particolare, della impossibilità che interventi settoriali (per esempio, un generale rafforzamento della tendenza “presidenzialista” premiata dal voto regionale) possano risultare utili senza uno “studiato” raccordo con il complessivo sistema nazionale di governo (che dovrebbe assorbirli). Quel che mi pare dovrebbe accadere è non affrettare le conclusioni, ma aprire ad una vera – e approfondita – corale, libera riflessione, solo a valle della quale operare le scelte. Meditate appunto.

E non improvvisate, declamatorie o emotive. Come fin qui è invece accaduto (vedi riforma del titolo quinto, introduzione nella carta del principio del “giusto” processo, taglio lineare dei parlamentari).
Il punto centrale della nostra democrazia non è solo restituire efficacia ai processi decisionali, accelerarne il maturare (come è certo necessario). È “anche” (e non meno necessario) rendere le decisioni “di governo” espressione di volere collettivo. Che abbiano autorità per questo (non solo perché munite giuridicamente di essa). È insomma un problema di “forme”.

Ora, benché nessuna democrazia moderna possa sottrarsi a forme di governo “mediate” (di tipo “rappresentativo” insomma), tutti sanno che non ne esistono declinazioni che possano andar bene per ciascuna. La loro efficacia è sempre specifica. Passa dal grado di coerenza che ne connota la relazione con il tessuto sociale del quale sono strumento di governo. Le elezioni ultime danno evidenza al fatto, ad esempio, che la società italiana (come per altro molte delle contemporanee) non è più “rappresentabile” nel modo in cui poteva, forse, esserlo ancora decenni fa. È molto frammentata e differenziata (negli orientamenti e nelle aspirazioni).

Il suo “governo” esige perciò una organizzazione complessa, “multilivello”. In grado di dare attenzione a quanto può dirsi di generale interesse (mediabile dunque con più relativa indifferenza) e a quanto invece di interesse più circoscritto (e mediabile perciò solo con strumenti più “raffinati”, perché più attenti alla considerazione delle diverse culture, sia territorialmente compresenti, sia invece territorialmente distribuite, spesso in ragione di storie multisecolari).

Se è palese insomma che non è più possibile sottrarsi alla necessità di una nuova maggiore coerenza tra struttura “sociale” e forme della “politica”, non è palese ancora quale sia la risposta opportuna. Quale essa possa essere nel concreto potrà dirlo soltanto una colta e approfondita riflessione. Che è appena partita e che speriamo possa finalmente dispiegarsi con la ricchezza di contributi necessari.
Quel che sembra certo è che non è più tempo di unità forzate (e di articolazioni “gerarchico-discendenti” delle funzioni di governo).

Non lo è dovunque. E non lo è in particolare in Italia (gli italiani – si condivida o meno – non si sono fatti fare). La “omologazione” (nei valori e nelle convinzioni generali) che ne è stata a lungo perseguita non si è ottenuta. E ora è anche divenuta impossibile. Se ne rifiutano ormai non soltanto permanenti “ispirazioni” (cattolica/laica) o “direzioni di orientamento” (destra/sinistra). Si rifiuta (e basta) ogni prospettiva omologante. La nostra società non accetta più di vivere sotto una sola “bandiera” identitaria.

Né generale ed imposta (come era stato negli anni del fascismo). Né comunque di largo riferimento, se anche liberamente adottata (come è stato a lungo nel dopo-guerra: bianchi e rossi, nella prima repubblica; rossi e azzurri nella seconda; rossi, azzurri, verdi e gialli in questa complicata transizione). Ciascuno si riconosce solo sotto bandiere provvisorie (spesso una pluralità, molto variabile nelle combinazioni), alle quali egli si fidelizza volubilmente. Perché libera (molto), multi-orientata e volatile (libera appunto) è la “cultura” maturata. Come appunto indicano le tendenze delle attuali “pratiche” politiche.

Gli elettori non accettano più di operare all’interno di “recinti forti”. Scappano dai partiti (e anche dalle coalizioni di questi, che non a caso mostrano anch’esse ormai la corda). Si raggruppano sempre più spesso in aggregazioni mobili. Se questo è chiaro, non è però ancora sufficiente a indicare in che modo potrà essere anche efficace.

Non possiamo ignorare che tali aggregazioni sono motivate talora da obbiettivi ostensibili (un programma, ad esempio, per il “territorio”). Altre volte da obbiettivi meno ostensibili (il “condizionamento” clientelare, in ipotesi, di un uomo di governo). Su questo – e su come orientare nella prima (virtuosa) direzione – si deve ancora riflettere. Non dimentichiamo che tra le cause di crisi della prima repubblica un ruolo di rilievo ha certamente rivestito la mancata attuazione dell’art. 39 della costituzione (disciplina dei “partiti”). La “rappresentanza” è un fatto “giuridico”. Non può avere ordine spontaneo.

Speriamo che la novità del rilievo assunto dalle “liste a sostegno” non sia sottovalutata. Non tutti sembrano darvi la dovuta attenzione. Essa non ha distolto infatti il dibattito dal suo consueto registro. Nei media (salvo poche eccezioni) si continua a insistere su “vincitori” e “perdenti”. Quando – molto più semplicemente – è evidente che utili (perché rilevanti) non sono ormai i confronti (se, in ipotesi, alla prossima occasione Zaia prendesse il 60 per cento dei consensi sarebbe una batosta?). Utile è solo constatare se “oggi” si è vinto o perso. Domani sarà sempre un altro giorno.

La “mobilità” dell’elettorato non è una costante recente casuale. Indica che siamo entrati nel “fisiologico” della democrazia. Ma essa è trattata (da molti almeno) come una “anomalia” da contrastare. Non si comprende che la “stabilità” di “governo” di una società “politica” (in autogoverno cioè) non può essere data dal “chi” ne riceve affidamento (soggetti del governo), ma dal “cosa” si persegue (obbiettivi). E la stabilità del “chi” cede inoltre all’importanza del “come” (all’efficacia dell’azione che si conduce).

Come si possono bene individuare obbiettivi lontani (conta che siano ben calibrati), così se ne possono bene sostituire gli affidatari temporanei (inefficienti). Quel che non ha senso è immaginare di avere solo obbiettivi “prossimi” (sui quali calibrare il consenso). Non possono mancare. Ma non possono essere i soli. Dobbiamo tornare a concepire come necessari anche obbiettivi “lontani”. Ed accettare dunque che il giudizio intervenga – nel percorso – sul “come”.

Il che, in una società mobile e frammentata, non può avvenire come in una, se non bloccata, sensibilmente almeno aggregata (come era decenni fa). Si continua a giudicare invece come se la realtà di oggi fosse quella di 50 (o anche solo 30) anni fa. Abbiamo perso il senso della “storia”. Rientrarvi è urgente.

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