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Chi brinda (e chi no) per il caos negli Usa in America Latina

Da Nicolás Maduro a Evo Morales, sono in tanti i regimi (poco democratici) a puntare il dito contro lo stato della democrazia americana. Ma c’è invece chi resta equilibrato e chi, sulla base dell’esperienza latinoamericana in colpi di Stato, avverte i repubblicani…

C’è un detto popolare (ma anche populista) che dice che in America Latina non esistono i colpi di Stato perché non ci sono ambasciate americane. Il mito, purtroppo, sembra svanito. Il caos regna negli Stati Uniti e, di fronte allo storico colpo contro le istituzioni democratiche statunitensi, i regimi latinoamericani brindano.

Il governo di Nicolás Maduro in Venezuela è il primo ad esprimere preoccupazione per i fatti violenti al Congresso americano. E sfrutta l’emergenza per denunciare, ancora una volta, come gli Usa hanno sempre istigato il disordine nella regione. Il ministero degli Esteri venezuelano ha diffuso una comunicazione in cui “condanna la polarizzazione e la spirale di violenza che riflette la profonda crisi che attraversa il sistema politico e sociale degli Stati Uniti. Con questo deplorevole episodio, gli Usa soffrono quanto hanno provocato in altri paesi con le loro politiche di aggressione”. Il regime si augura un avvio verso un cammino di stabilità e giustizia sociale negli Stati Uniti, anche se la strada più giusta sarebbe quella di mettere ordine in casa.

Anche in Bolivia c’è chi esulta davanti all’inedita crisi americana, il (poco democratico) ex presidente Evo Morales. In un tweet il socialista ha voluto fare la vittima, paragonando le sue dimissioni a quanto accaduto al Congresso degli Usa. “Così come ha fatto in Bolivia, Trump promuove la violenza razzista e fascista e non è interessato alla democrazia”, ha scritto Morales, che sostiene da mesi che è stata l’amministrazione Trump ad orchestrare le proteste che l’hanno portato alle dimissioni, consegnando il potere al governo ad interim di Jeanine Añez.

L’ex presidente del Brasile, il socialista Luiz Inácio Lula da Silva, ha twittato che “l’invasione del Campidoglio svela crudamente quello che accade quando si cerca di sostituire la politica e il rispetto al voto con la bugia e l’odio, anche in un Paese che si vanta di essere campione di democrazia”.

Dall’Argentina, invece, arriva il sostegno per Biden. Il presidente argentino Alberto Fernandez ha condannato i gravi fatti di violenza e l’oltraggio al Congresso. Su Twitter ha scritto: “Siamo fiduciosi nel fatto che ci sarà una transizione pacifica che rispetti la volontà popolare ed esprimiamo il nostro più fermo sostegno al presidente eletto Joe Biden”.

Il presidente Sebastián Piñera ha scritto che il Cile “rifiuta le azioni indirizzate ad alterare il processo democratico”.

Per lo scrittore e giornalista argentino, Diego Fonseca, quanto accaduto ieri negli Stati Uniti non è la fine della Storia. In un articolo pubblicato sul The New York Times, il direttore del Institute for Socratic Dialogue di Barcellona sostiene che c’è stato un colpo di Stato e questi non possono mai assumersi con leggerezza. “Un golpe è un golpe e non ha bisogno di militari per esserlo – sostiene Fonseca -. In America latina abbiamo l’occhio allenato. Abbiamo visto cattive forme di tutti i colori per prendere o perpetuarsi al potere”.

Le dittature latinoamericane sono registrate nei libri, film e documentari di tutto il mondo. E non parliamo solo degli anni 70. Ci sono esempi recenti, come i colpi di Stato di Hugo Chávez in Venezuela o l’infinita presidenza di Daniel Ortega in Nicaragua.

Ci sono stati colpi di Stato travestiti di riforma, azione giudiziale, sanzione parlamentaria. “Anche se sconfitta la sua avventura anti-democratica, Trump ha spinto il Paese più vicino alla nostra regione – scrive Fonseca -, la parte del mondo dove tante volte ha vinto la volontà dell’uomo forte”.

E conclude: “Ora il Partito Repubblicano ha davanti una scelta di vita. Nonostante abbia avallato quanto ha fatto Trump in quattro anni, e abbia giustificato la contestazione delle elezioni, non può legittimare un golpe”.

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