Dentro la pandemia si muove un universo quasi sconosciuto, fatto di riti e abitudini che segnano un periodo della nostra esistenza che mai avremmo ritenuto di vivere. Giuseppe Del Ninno ha raccontato La vita quotidiana ai tempi del coronavirus (Solfanelli editore, pp. 169, € 12) come una sorta di romanzo domestico nel quale le piccole cose che accadono in casa assumono proporzioni inimmaginabili per importanza. Un libro originale che racconta ciò che è incominciato un anno fa e purtroppo continua a condizionare la nostra vita. Di seguito pubblichiamo una parte della prefazione al volume di Gennaro Malgieri
Ce ne stiamo, come da marzo o ancora prima alcuni, chiusi in noi stessi e come Xavier De Maistre giriamo nelle stanze che ci sono familiari raccontandoci la nostra vita quasi per non disperderla.
È il metodo che ha adottato Giuseppe Del Ninno, trascritto nelle pagine che seguono come per non per perdere nulla di ciò che nella solitudine e nella mestizia, illuminate dal pensiero degli affetti, dei ricordi, dei libri e della intima felicità coniugale e perciò inespugnabile, ha vissuto. La scrittura della sua vita quotidiana al tempo della pandemia mi è sembrata una sorta di cura osservata da Del Ninno con meticolosità, grande sapienza, raffinatezza e disincanto davanti al babelico flusso di notizie trasportate tra le pareti domestiche dal massiccio armamentario informativo ai cui eccessi si devono le paure, le angosce, la depressione che hanno contagiato un po’ tutti come se un prezzo da pagare al grande circuito mediatico che spesso della pandemia ha fatto uno show condito di disinformazione, contumelie tra scienziati, provocazioni da sedicenti politici.
Un moralista la cui “ferocia” è mitigata dalla sua naturale bontà che tale risalta in ogni riga del libro sia quando accenna alla politica che quando si diffonde nella revocazione di viaggi o quando mostra pietà per giovani ed anziani vittime entrambe “privilegiate” di questa assurda condizione alla quale ci costringe la pandemia che come simbolo ha un pipistrello, ormai leggendario, dal quale sarebbe venuto fuori, grazie ad uno “Spillover”, un salto di specie, la malattia che ha messo inginocchio il Pianeta.
Del Ninno con questo libro, probabilmente il più maturo e sentito tra i numerosi che ha scritto, almeno per me anche il più bello ed il più riuscito stilisticamente, una prova letteraria di grande spessore, si è proposto, compilando una sorta di “diario minimo”, di raffigurare un’umanità che raramente viene raffigurata. Parla di se stesso, insomma, per rappresentarsi, forse senza volerlo, come “soggetto universale” al quale il virus ha prestato una penna, o meglio un computer, allo scopo di annotare come l’individuo contemporaneo che detesta la modernità e guarda al mondo globale con diffidenza, ha la possibilità di “salvarsi” se soltanto si riappropria di quel “piccolo mondo antico” al quale quasi tutti hanno rinunciato e rivendica nel contempo il primato della poesia come fondamento di ogni cosa.
E ce n’è tanta di poesia in queste pagine che talvolta irritano per le evidenze che mette in risalto e talaltra commuovono per la coerente preservazione della memoria alla quale si è votato, consapevole che senza questa nulla è possibile, neppure uscire da una tragedia che ci avvolge e ci sconvolge. Ed è appunto un bisogno universale quello di congiungersi alla realtà attraverso la poesia anche se non si scrivono versi. Mi viene in mente un motto di Friedrich Hölderlin: “Tutto ciò che è destinato a restare, lo fondano i poeti”.
Non so se ciò che andiamo scrivendo e pensando merita la definizione del grande poeta tedesco. Ma certo è che se dal cuore alle mani che scrivono secondo ispirazioni tanto semplici quanto alte, nel bel mezzo di una tragedia come quella che stiamo vivendo, emerge la spontanea considerazione di una vita di sentimenti e di pietà narrata alla maniera di De Ninno, può essere il paradigma al quale rifarci per poter riconquistare ciò che abbiamo perduto gingillandoci tra i gadget inutili (quando non dannosi) della impalpabile e distratta vita che ci viene imposta dai modelli culturali e comportamentali confezionati in un altrove che per pigrizia neppure ci chiediamo dove sia allocato.
Le pagine vere e vissute di Del Ninno non so se allevieranno l’angoscia del lettore, soprattutto in questi tempi di ritorno al passato, mentre più dura si va facendo la pandemia in tutto l’Occidente, e la sua sfida sembra che la stiamo al momento perdendo su tutta la linea, mi pare di poter dire che è comunque confortante che le linee di pensiero e di comportamento di uno scrittore appartato diventino acquisizione di chi le leggerà trovandovi una consonanza confortevole come è la vita familiare con i suoi stilemi, le sue abitudini, le sue aspettative, il suo calore.
La “clausura” ha prodotto un libro, dunque, e qualcosa di più. Ci ha donato una “confessione”. Che non è soltanto dell’Autore, ma di ognuno tra quanti si riconoscono in una sensibilità, in una visione della vita e del mondo, in un sentimento di appartenenza che alla fine del viaggio intorno alla sua stanza può anche avvertire un senso di fastidio lasciando le ristrettezze imposte dall’epidemia e scrivere: “Liberi. Eppure, un disagio sottile, non proprio “il male di vivere” evocato da Montale, ma qualcosa che gli assomiglia, mi serpeggia sotto pelle. Complice, forse, il cielo grigio, avverto una malinconia che non si spiega con la lontananza — non più obbligata — dalle persone care. Liberi, dicevo, ma sento già il peso delle regole che, per un tempo indefinito, fiaccheranno e snatureranno il piacere di entrare in una libreria per sfogliare, fra i banchi e gli scaffali, le novità editoriali, e per cercare titoli che ci eravamo ripromessi prima della pandemia. Insomma, a oziare, a “flâner”, per esempio, nei corridoi della Feltrinelli di piazza Argentina, magari prima di raggiungere il nostro ristorante preferito, nei pressi.”
Liberi, ma non totalmente. La pandemia durerà anche dopo la pandemia. Intanto delle nostre vite stracciate chissà he cosa ne verrà fatto: saremo ancor più prigionieri di un Grande Fratello, attraverso implacabili App che dovrebbero tracciare i nostri movimenti, come lascia intuire Del Ninno. Poi saremo più poveri, non più frugali come sarebbe auspicabile, in quanto le risorse se ne saranno andate a farsi benedire. Quindi ci scopriremo più diffidenti nei confronti del poteri pubblici per aver espropriato la rappresentanza politica (docilmente assuefattasi a regolamenti bislacchi e contorti). Ed ameremo molto di meno un’Europa che non ha saputo o voluto costruire un immenso sanatorio, ma si è incanaglita in piccole querelle da staterelli egoisti nel tempo dei grandi spazi dove le sfide planetarie non avvengono più nell’ambito della piccola politica.
Considerazioni che alla fine della lettura del libro di Del Ninno si presentano spontanee. E ci fanno domandare se le pagine sfogliate ed apprezzate non siano il frutto di un racconto intimo e personale, ma rivelino invece l’essenza politica di una vicenda sanitaria che per vie misteriose ci ha spalancato i cancelli della consapevolezza sul nostro presente e ancor più sul nostro futuro. La risposta a questa “suggestione” la darà soltanto il tempo che la nostra generazione difficilmente vivrà. Ma questo non dipende dal pipistrello, né dai cinesi, e neppure dalla brutalizzazione della natura alla quale il coronavirus è connesso. Potremo tuttavia pur sempre consolarci del dono che il destino ci ha fatto mettendoci tra le mani questo libro intenso ed evocativo di uno scrittore capace di raccontarsi e farci ritrovare nel suo racconto.