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Roma come Charlottesville, prove tecniche di insurrezione? L’opinione di Alegi (Luiss)

Gli scontri di sabato a Roma sono un caso isolato o indicano un problema più ampio? Difficile dirlo, ma il grave episodio porta alla mente gli scontri di Charlottesville del 2017, prodromo per l’assalto al Congresso del 2020. Due i nessi con la situazione italiana: la violenza e la difficoltà a prenderne le distanze da parte della destra “normale” o “moderata” o “di sistema”. L’Italia sembra avere più difese. L’opinione di Gregory Alegi, professore a contratto di History and Politics of the USA presso la Luiss Guido Carli

Accadde a Charlottesville l’11 agosto 2017: un raduno della alt-right (la “destra alternativa”, anti-sistema), trasformatosi in scontri violenti conclusisi con l’investimento mortale di una donna di 32 anni da parte di un neonazista. Più che l’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021, da una prospettiva americana è questa prima immagine che viene in mente di fronte all’assalto di sabato sera alla sede Cgil e al policlinico Umberto I di Roma da parte di persone e formazioni di estrema destra unite dal rifiuto del Green Pass. Due i nessi: la violenza e, soprattutto, la difficoltà di prenderne le distanze da parte della destra “normale” o “moderata” o “di sistema”.

ALL’INIZIO FU CHARLOTTESVILLE

Charlottesville è sede tra l’altro della University of Virginia con un campus storico, progettato da Thomas Jefferson su modelli palladiani. Quando questa deliziosa cittadina decise di rimuovere la statua del generale confederato Robert E. Lee, una serie di gruppi a metà tra il terrificante e il pittoresco – dai neo-Confederati al Ku Klux Klan, passando per suprematisti bianchi e antisemiti – decisero di radunarvisi, ufficialmente per protestare contro una rilettura della storia meno tollerante verso la Secessione e lo schiavismo. In realtà, il raduno serviva alla alt-right per contarsi, sventolare bandiere, sfoggiare M16 e giubbetti antiproiettile. Ma soprattutto per sondare i limiti della legge e del mantello protettivo steso dell’allora presidente Donald J. Trump.

Un’agenda politica molto chiara, resa esplicita dalla presenza in città di David Duke, ex capo (“Grand Wizard”, per l’esattezza) del Ku Klux Klan, che già nel 2015 aveva definito Trump il miglior candidato possibile alla presidenza. Mentre la polizia faticava a separare i manifestanti di destra dalla contromanifestazione di sinistra (senza avventurarsi a spiegare cosa ciò possa voler dire negli Stati Uniti) e la Tv trasmetteva in diretta le traumatiche immagini della violenza, Trump attese 48 ore per condannare gli scontri. Quando lo fece, sostenne la sostanziale equivalenza tra i manifestanti, senza prendere le distanze dalla alt-right e dal suo consigliere Steve Bannon. “C’era gente molto molto cattiva in quel gruppo, ma c’era anche gente che era molto per bene, su entrambi i versanti”.

A causare lo scontro, insomma, non sarebbe stata l’invasione di Charlottesville da parte di centinaia di incappucciati del KKK, di bandiere sudiste e neonaziste, ma la decisione di rendere pubblico il proprio sdegno.

LA DIFFICOLTÀ A PRENDERE LE DISTANZE

Benché svoltosi senza alcuno scontro tra opposte fazioni e, soprattutto, conclusosi senza vittime, il caso di Roma presenta importanti analogie con quello di Charlottesville. Il primo è l’utilizzo di un pretesto – in questo caso l’opposizione al Green Pass – per mascherare lo scopo politico della manifestazione. Il secondo è la violenza: per quanto senza vittime, l’assalto alla Cgil e al pronto soccorso dell’Umberto I sono molto gravi. Il terzo è la difficoltà di smarcarsi dalle frange estremiste più o meno adiacenti al proprio schieramento, con Roberto Fiore in un ruolo ancor più esplicito di quello di Duke.

“È sicuramente violenza e squadrismo, poi la matrice non la conosco”, ha dichiarato in Spagna Giorgia Meloni, per smarcarsi dall’accusa di contiguità con Forza Nuova. “Nel senso che non so quale fosse la matrice di questa manifestazione, sarà fascista, non sarà fascista, non è questo il punto. Il punto è che è violenza, è squadrismo e questa roba va combattuta sempre”.

Il punto di contatto con le dichiarazioni di Trump è evidente: condannare la violenza ma negare la matrice politico-culturale dei violenti. Se l’appartenenza partitica può essere difficile da dimostrare in senso legale, quella culturale si può verificare con strumenti più semplici, a partire dal persistente ricorso a candidati di nome Mussolini anche in liste ufficialmente lontane dai gruppi vetero- o neo-fascisti. Ed è proprio la sovrapposizione con gli aspetti più diffusi della cultura di destra – dai commenti evergreen sul presunto ruolo degli ebrei nella finanza ai simboli mussoliniani su molte scrivanie anche in enti pubblici – a rendere imbarazzanti gli atti violenti di una minoranza numerica che esercita un fascino prepotente su molti che, se non “neri”, si riconoscono senz’altro nel “grigio scuro”.

Questo spiega il ricorso alla relativizzazione come strategia comunicativa, nel senso del tentativo di attenuare quanto accaduto comparandolo con le responsabilità di altre formazioni politiche o addirittura con l’incapacità delle forze dell’ordine di prevenire gli scontri. La condanna universale della violenza, in sé ineccepibile, serve insomma ad accomunare tutti gli atti fino a cancellare la responsabilità individuale per ciascuno di essi. Siamo tra il Così fan tutte e il “di notte tutti i gatti sono grigi.” In realtà, come si dice negli Stati Uniti, “two wrongs don’t make a right”, dalla somma di due torti non scaturisce una cosa giusta.

E IN ITALIA…

Negli Stati Uniti la trasformazione della non-condanna di Charlottesville in legittimazione indiretta della violenza politica e razziale è culminato poco più di tre anni dopo nell’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021. Tra questi due estremi vi sono stati numerosi altri episodi, dall’attacco alla Capital gazette del 2018 (con cinque vittime) ai disordini di Kenosha del 2020 (con due persone uccise dal minorenne Kyle Rittenhouse), tutti maturati in quella stessa galassia politica. La violenza è stato spesso abilitata, in senso culturale, dalla tolleranza ufficiale verso le minacce con le armi ai dimostranti (a St. Louis) fino allo sgombero violento dello spazio attorno alla Casa Bianca per consentire la passeggiata mediatica di Trump.

Tutto questo spiega bene non solo come si siano create le pre-condizioni per l’attacco al Congresso, ma anche perché alcuni partecipanti potessero essere convinti di non star facendo nulla di male e perché tra di loro vi fossero esponenti delle forze dell’ordine e delle forze armate. Anche in Italia gli eventi del 9 ottobre potrebbero essere una sorta di prova generale per azioni più clamorose. Desta indubbia sorpresa che Fiore possa continuare ad agire liberamente, così come è chiara l’eccessiva tolleranza verso troppe sfumature di grigio, a partire dalle occupazioni (e sì, ci sono anche quelle di segno opposto, e anche quelle andrebbero affrontate). E come non preoccuparsi per le azioni violente di simpatizzanti di destra – di basso livello finché si vuole, ma non di rado in grado di interloquire con le articolazioni periferiche dei partiti tradizionali.

Rispetto agli Stati Uniti, l’Italia ha però alcuni vantaggi che autorizzano un cauto ottimismo riguardo la capacità di evitare un’evoluzione insurrezionale come quella del 6 gennaio 2020. Il primo è la minor diffusione di armi automatiche, con annesso divieto di organizzazioni paramilitari. Il secondo è la prevalenza di forze di polizia su base nazionale, anziché statale (o regionale, che dir si voglia). Il terzo è la maggior capacità di distinguere tra libertà di espressione e incitamento al razzismo o alla sovversione, come dimostra il sequestro del sito internet di Forza Nuova attraverso l’art. 321 comma 3-bis del Codice di procedura penale. Il quarto è la separazione più netta tra carriera interna e nomina politica nelle forze dell’ordine, che protegge da taluni eccessi (ma non da tutti). Perché questi vantaggi possano bloccare sul nascere gli sviluppi “all’americana”, è però indispensabile chiamare le cose – o meglio le matrici – con il loro nome, senza minimizzarne la portata in nome degli interessi elettorali. Diversamente, il rischio che i risultati delle elezioni politiche 2023 vengano contestati in piazza e che ciò si traduca in una insurrezione “American- style” potrebbe essere dietro l’angolo.

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