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Renzi, Salvini e il kingmaker che non c’è. La bussola di Ocone

Non è difficile vedere una certa perfidia nelle parole di Renzi a cui forse una spaccatura nel centrodestra non nuocerebbe, o meglio non nuocerebbe una situazione in cui né la destra né la sinistra riescano a combinare granché. E un kingmaker che fallisce semplicemente non lo è più

“Stavolta il ruolo di kingmaker tocca a voi del centrodestra”, ha detto Matteo Renzi dal palco della festa di Atreju. E non si capisce se si è trattato di una mera constatazione, dati i rapporti di forza vigenti in questo parlamento e fra i delegati delle regioni, o un estremo atto di perfidia. Anche perché per fare il kingmaker bisogna avere in testa una strategia, ma anche non darlo a vedere, almeno fino a quando i giochi non inizieranno a farsi duri. E devono poi essercene le condizioni, cioè una compattezza di fondo almeno da parte di chi vuole dettare le carte.

Non si vuole qui certo insinuare che il centrodestra questa compattezza non ce l’abbia, ma intanto l’unico modo di dimostrarlo sarebbe quello di convergere su un nome da proporre agli altri con la possibilità di convincerli. Il che è francamente impossibile, o quasi, perché se si punta subito su Berlusconi il rischio è che non passi, o lo si bruci, mentre se si fa un altro nome il rischio è che si spacchi lo stesso centrodestra. Se questa è allo stato attuale la situazione, non è difficile vedere anche una certa perfidia, appunto, nelle parole di Renzi a cui forse quella spaccatura non nuocerebbe, o meglio non nuocerebbe una situazione in cui né la destra né la sinistra riescano a combinare granché. E un kingmaker che fallisce semplicmente non lo è più.

Oggi Augusto Minzolini invita, in un fondo del Giornale, quelli che si ostina a chiamare “sovranisti” (ormai non lo fa nemmeno più Enrico Letta) ad uscire da ogni ambiguità e a proporre netto il nome del Cavaliere. Il fatto è che però mai come questa volta l’ambiguità è nella “cosa stessa”, come direbbero i i filosofi.

E infatti l’altro Matteo, Salvini, che ha risposto positivamente all’invito di Renzi e ha fatto sapere che da domani inizierà a chiamare tutti i segretari di partito per un tavolo comune che giunga ad una scelta condivisa, ha poi dovuto precisare che “se qualcuno ha la spocchia di dire che il prossimo capo dello Stato non può essere di centrodestra” gli bisogna ribattere che “non c’è un articolo della Costituzione che dice che debba essere scelto sempre dal Pd”. Che è come dire che le due strade, quella di una scelta a larghissima maggioranza (come fu per Cossiga e Ciampi) e l’altra di una scelta di parte che riesca poi ad aggregare i consensi in più necessari all’elezione, sono ancora entrambe aperte.

D’altronde, l’unico nome che potrebbe oggi essere teoricamente eletto ad ampio suffragio è quello di Mario Draghi, ma appunto “teoricamente”. Quanti deputati correrebbero, infatti, il rischio, per votarlo, di porre termine subito alla legislatura?

L’accordo fra i partiti dovrebbe essere complessivo, cioè anche sul nuovo presidente del Consiglio e sulla continuità di questo parlamento. Né Draghi potrebbe permettersi di essere votato con una maggioranza risicata. Ovviamente, dall’ambiguità si uscirà solo quando qualcuno farà una scelta netta, indicherà un nome, e su quello si aprirà il confronto. Oppure se sarà Draghi stesso a fare una scelta.

Qualcosa in più, a tal proposito, lo capiremo probabilmente a fine anno, quando si porrà il problema di prorogare o meno lo stato d’emergenza, situazione che imporrebbe a Draghi di non lasciare il timone ad opera ancora incompiuta.

E qualcosa capiremo anche dal discorso di fine anno di Sergio Mattarella: se la sua decisione di non proporsi per un doppio mandato oltre che netta è anche irrevocabile; e se, in questo caso, non ritenga egli stesso di indicare un percorso, o una exit strategy, ai partiti e alla variegata truppa dei parlamentari con cui ha dovuto fare i conti in questa pazza legislatura.

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