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Recovery, lavoro, reddito. Scotti sussurra a Draghi

Di Salvatore Di Bartolo

Reddito di cittadinanza, recovery plan, riforma del lavoro e lotta alla povertà. C’è un altro fronte bellico che attende il governo Draghi. Analisi e consigli per affrontare la tempesta di Vincenzo Scotti, ex ministro dell’Interno e colonna della Dc

Vincenzo Scotti è stato a lungo ai vertici della Democrazia Cristiana e ministro in diversi governi dal 1978 al 1992. È stato, tra l’altro, ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali dei governi Andreotti IV, Cossiga I e Fanfani V. Dal reddito di cittadinanza al Recovery plan, in questa intervista passa in rassegna le principali sfide del governo Draghi sul fronte economico e suggerisce come evitare di sprecare il treno dei fondi europei.

All’indomani della sua introduzione, il Reddito di Cittadinanza venne presentato non solo come una misura in grado di contrastare povertà ed emarginazione sociale, ma anche come un valido strumento per l’ingresso ed il reinserimento nel mercato del lavoro. Tuttavia, almeno in questa prima fase, i numeri sembrerebbero dimostrare inequivocabilmente l’inefficacia delle politiche attive del lavoro contenute nel provvedimento. Cosa non ha funzionato?

Il Reddito di cittadinanza nasce come una misura coraggiosa in quanto per la prima volta si progetta un intervento di carattere nazionale che intende cogliere sia obiettivi di inclusione sociale che di attivazione al lavoro. Tuttavia questa misura per poter funzionare si doveva appoggiare su un’ampia riforma delle misure di politica attiva, che in Italia sono storicamente deboli e non possono contare su un efficiente sistema di servizi per il lavoro. Inoltre, la differenza tra i sistemi regionali del lavoro, ha impedito un’efficace governance dell’intervento. Non dimentichiamoci, infine, che la maggior parte dei beneficiari del reddito di cittadinanza risultano sprovvisti di un adeguato livello di competenze e di occupabilità per l’inserimento al lavoro. Tutti questi elementi hanno impedito al Reddito di cittadinanza di essere una reale forma di politica attiva nazionale, soprattutto nel periodo della crisi pandemica.

All’inefficacia delle politiche attive si sommano, poi, gli effetti disincentivanti al lavoro determinati sulla persona del beneficiario dalla percezione del sussidio. Anche in tal caso, i dati dimostrano come la stragrande maggioranza dei percettori cosiddetti ‘attivabili’ non cerchi realmente un’occupazione. Come se ne esce?

L’errore a monte, soprattutto per un intervento che coinvolge soprattutto persone non immediatamente attivabili e che hanno bisogno di formazione obbligatoria, è stato ancora prima quello di affermare la possibilità che possa essere rifiutata la proposta di lavoro per ben tre volte. È stato lanciato un messaggio assolutamente sbagliato e fuorviante. È necessario che, come capita in tutta Europa, tutti i percettori di un sussidio, non solo il Reddito di cittadinanza, ma anche il sussidio di disoccupazione, siano obbligati a partecipare a percorsi di formazione o di ricerca attiva del lavoro e quando arriva la cosiddetta offerta congrua non la possano rifiutare, pena la perdita del sussidio e anche della condizione di disoccupato. È una regola che in Italia abbiamo da più di vent’anni e che le regioni fanno molta fatica ad attuare. Serve più serietà e rigore: ai sussidi devono seguire adeguati comportamenti da parte dei beneficiari, altrimenti facciamo solo assistenzialismo.

Altro fattore da non trascurare è il livello medio dei salari, che in Italia risulta ancora eccessivamente basso. Spesso e volentieri, infatti, il loro ammontare risulta pari, ed in alcuni casi persino inferiore, all’entrata mensile garantita della percezione della misura di welfare. In situazioni del genere è assai probabile che il beneficiario preferisca ‘accontentarsi’ del sussidio piuttosto che lavorare. Il Reddito di Cittadinanza sembrerebbe aver sostituito a tutti gli effetti il lavoro…

Il livello medio del reddito di cittadinanza erogato è di poco superiore ai 500 euro mensili. Certamente si tratta di una misura in competizione con un tirocinio, ma non con un contratto regolare. In ogni caso, soprattutto in alcuni settori, come la ristorazione, che lamentano una grave carenza di addetti, una maggiore attenzione all’erogazione di salari adeguati farebbe venir meno questo tipo di competizione al ribasso. Servono controlli nelle aziende, perché se a un ragazzo che fa il cameriere per 10 ore al giorno vengono date 500 euro mensili di salario, il problema non è il Reddito di cittadinanza ma il salario. Certo ci possono essere casi di competizione al ribasso, ma il punto non è a mio parere l’ammontare del Reddito quanto i tanti casi di falso tirocinio a 400 euro che nascondono veri e propri rapporti di lavoro.

Un problema, questo, che poteva, almeno in parte, essere superato garantendo la cumulabilità del reddito da lavoro con il Reddito di Cittadinanza. E però, in sede di approvazione della Legge di Bilancio 2022, si è scelto di non riconoscere ai beneficiari questa opzione. Lo ritiene un errore da parte del governo?

Penso che sotto la soglia ISEE, ossia 8600 euro annui per il lavoro dipendente e circa 5000 per il lavoro autonomo, il lavoro potrebbe potersi cumulare con forme di sussidio, se questo percorso è legato al miglioramento della condizione occupazionale e non diventa permanente. Per legge, sotto questa soglia di reddito è possibile accedere alla politica attiva e quindi penso che il governo abbia fatto un errore. In Italia in questi anni sono cresciuti i “working poor” i lavoratori poveri, insieme alla diffusione del part time involontario e per questo sono utili misure come quella a cui ha accennato.

L’attività fraudolenta dei cosiddetti ‘furbetti del Reddito di Cittadinanza’ ha contributo esponenzialmente a delegittimare il provvedimento pentastellato agli occhi dell’opinione pubblica. Nell’intento di arginare tale fenomeno il Governo guidato da Mario Draghi ha optato per la linea della ‘stretta’. Crede che i meccanismi di controllo dei requisiti dei beneficiari introdotti dalla Legge di Bilancio 2022 siano idonei a limitare abusi ed illeciti?

Si, sono misure che vanno nella giusta direzione, così come in generale tutto quello che va a rafforzare il sistema dei controlli e delle ispezioni sul lavoro. Tuttavia anche qui non bisogna fare demagogia invece, spesso, parlando del Reddito di cittadinanza, anziché manifestare un’eventuale critica sulla natura dello strumento, si è preferito parlare della patologia e degli abusi. Il nostro è un Paese in cui l’evasione fiscale e le varie forme di irregolarità collegate al lavoro sono molto diffuse ed in questa mala pianta non si può pensare di non trovare anche casi di furbetti del Reddito di cittadinanza. Purtroppo bisogna, in generale, aumentare i controlli e le ispezioni sul lavoro, anche se certamente in modo non punitivo e non vessatorio verso chi, invece, opera nel rispetto delle regole.

Tra le novità introdotte dalla manovra è previsto il cosiddetto ‘decalage’, ovvero la riduzione dell’entità del sussidio, seppur di soli 5 euro, al rifiuto della prima offerta congrua e la revoca al secondo rifiuto. Basterà a scongiurare l’eventualità che, anche in futuro, i beneficiari possano trovarsi nella condizione di rigettare senza troppi patemi d’animo le offerte di lavoro che dovessero ricevere?

Non ho mai capito un punto: se l’offerta è “congrua” ossia corrispondente alle caratteristiche del lavoratore e non troppo lontana dalla sua residenza, perché si può rifiutare? Io avrei reso obbligatoria l’accettazione della prima proposta congrua.

Se da una parte ci sono i furbetti che riescono ad accaparrarsi il sussidio senza averne il diritto, dall’altra, esiste un’ampia platea di soggetti che, pur trovandosi in una reale condizione di povertà, non riescono comunque ad accedere al programma di sostegno al reddito previsto dal provvedimento. Bisognerebbe probabilmente rivedere i criteri di accesso alla misura…

Il problema della povertà in Italia è ampio e complesso ed è reso da noi più grave dal fatto che la condizione di povertà relativa dipende anche dal luogo di residenza, in quanto il costo della vita varia molto da regione a regione. I requisiti di accesso al Reddito di cittadinanza sono in ogni caso molto rigorosi e lasciano fuori tutta la cosiddetta povertà relativa. Soprattutto i requisiti sul possesso di beni materiali mi sono sembrati un po’ eccessivi. Forse è il caso di rivedere questi criteri.

In particolare, si evidenziano delle criticità nella cosiddetta ‘scala di equivalenza’, che tende a sfavorire le famiglie numerose rispetto alle famiglie con pochi figli ed ai single. Lo stesso ‘Comitato per la valutazione del Reddito di Cittadinanza’ aveva consigliato di ridurre la soglia di accesso alla misura ed equiparare altresì, nella scala di equivalenza, i minorenni agli adulti al fine di premiare le famiglie con molti figli. La proposta in questione non è stata presa in considerazione nella manovra. Come se lo spiega?

Credo che la manovra non sia intervenuta negli aspetti di merito e credo che il governo abbia in mente un provvedimento di revisione più ampio nell’ambito della riforma delle politiche attive, almeno me lo auguro. La Legge di Bilancio ha inoltre sancito un ulteriore incremento, pari ad oltre un miliardo di euro, del fondo per il Reddito di Cittadinanza. Dal 2022, dunque, la misura costerà ai contribuenti italiani circa 8,8 miliardi di euro l’anno. E ciò, nonostante i propositi iniziali di diversi leader e schieramenti politici lasciassero presagire un radicale ridimensionamento del suddetto fondo. Sembrerebbe che in questo caso abbia prevalso la linea del compromesso politico. In Italia in questi anni di crisi la popolazione in condizione di povertà assoluta è aumentata di molto ed è necessario, come in ogni Paese europeo, prevedere misure di sostegno. Tuttavia penso che questo intervento vada ripensato, se vogliamo renderlo strutturale, e vada collocato come strumento di un sistema di servizi sociali e di attivazione al lavoro più robusto ed efficace rispetto a quanto oggi abbiamo a disposizione.

Soprattutto dopo l’avvento della pandemia il Reddito di Cittadinanza ha avuto un’enorme valenza sociale e politica. E’ dunque così giustificabile il fatto che questa misura si trovi su un gradino più alto rispetto a qualunque altro capitolo di spesa del Bilancio dello Stato?

In parte sì, perché una democrazia si deve in primo luogo far carico di chi si trova in maggiore difficoltà. Tuttavia la risposta non può essere il mero assistenzialismo e la promozione del reddito di cittadinanza deve costituire un elemento di raccordo tra le misure di sostegno al reddito per i poveri ed al tempo stesso di attivazione al lavoro. Penso che lo snodo sia il ruolo della formazione, perché il sessanta per cento dei beneficiari del reddito che non risultano occupabili e penso che debbano avere il diritto-dovere di acquisire una competenza utile.

I più critici sostengono che i fondi destinati a finanziare il Reddito di Cittadinanza potrebbero essere destinati ad impieghi più produttivi: dagli sgravi fiscali alle imprese fino agli investimenti infrastrutturali. Cosa ne pensa?

Sono interventi distinti ed è demagogico mettere insieme ricette che riguardano problemi diversi. Abbiamo un PNRR che finanzia decine di miliardi di euro per investimenti in infrastrutture pubbliche e non credo che sia un problema di risorse quanto di qualità della progettazione, mentre il tema degli sgravi va impostato diversamente. Siamo il Paese in Europa che spende di più per agevolazioni contributive; il problema è il costo del lavoro più che la presenza di incentivi alle assunzioni, che non mancano.

Il Pnrr rappresenta probabilmente l’ultima grande occasione per il nostro Paese per colmare il notevole gap che ci separa dai partner europei. In che modo andrebbero impiegate le ingenti risorse assegnateci dal programma Next Generation Eu per rilanciare il mercato del lavoro?

Credo che attuare le linee di intervento del Pnrr sul lavoro sia importante: sono più di sei miliardi per il programma Garanzia occupabilità e per il Piano nuove competenze. Finalmente mi sembra si sia capito che il principale problema del lavoro italiano sia quello delle competenze, che per vari motivi sono carenti e non allineate al mercato e alla domanda delle imprese. Questo vale sia per i lavoratori che a maggior ragione per i disoccupati. Servono forti investimenti per le competenze e quindi per il sistema formativo. Sono molto convinto di questa scelta, ma ci vuole determinazione ed una governance con le regioni più efficace di quella attuale.

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