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Capire la guerra di Putin, tra risentimento e globalizzazione

Se la guerra ha scatenato le forze del male, ha forse anche liberato il campo per la “tempesta perfetta” necessaria a uscire da un modello di sviluppo insostenibile e ritrovare un nuovo equilibrio più giusto e ragionevole. Il libro di Antonio Maria Costa (editore Gribaudo) commentato dal professor Scandizzo

Nella Genealogia della Morale (1887) Nietzsche introduce il concetto di “risentimento” come l’odio impotente contro ciò che non si può essere o non si può avere. “La rivolta degli schiavi nella morale contemporanea, secondo Nietzsche, comincia quando il risentimento stesso diviene creatore e genera valori; il risentimento di quegli esseri ai quali la vera reazione, quella dell’azione , è negata e che perciò non trovano compenso che in una vendetta immaginaria” (Genealogie der Moral, I, 10).

Nel suo bel libro su “La Guerra di Putin”, con sottotitolo “Attacco alla Democrazia in Europa”, editore Gribaudo, Antonio Maria Costa, economista e funzionario internazionale di grande livello, individua il risentimento storico come la base psicologica della invasione dell’Ucraina. In questo caso, come in quello di molte guerre, compresa la Seconda guerra mondiale, il risentimento è anche la ragione di avventure temerarie nel tentativo di superarne la frustrazione, che ne è l’elemento costitutivo, passando all’azione.

Ma se il risentimento rivela l’atteggiamento psicologico di Putin e forse di una parte rilevante del popolo russo, esso non spiega di per sé i tempi e i modi della “Guerra di Putin”, che si rivela come una fase particolarmente feroce e irrazionale del ritorno a quella conflittualità europea, le cui radici Keynes aveva così bene identificato nel suo famoso “ Le conseguenze economiche della pace”.

La realtà della Russia odierna, nata dalle ceneri dell’Unione Sovietica, è attraversata dal risentimento storico evocato da Nietzsche, ma, allo stesso tempo, soffre di una malaise attuale, che dipende dal modo caotico con sui essa è arrivata da uno stato totalitario ideologico a un sistema di potere pragmatico, ma predatorio e autoritario (una sorta di pluto-cleptocrazia).

Le democrazie occidentali, ora sotto attacco, hanno lasciato che questo tipo inedito di stato postcomunista si affermasse dopo la caduta del muro di Berlino tollerandone o addirittura favorendone i risvolti economici spregiudicati e spesso illegali, che l’autore conosce e racconta con dovizia di dettagli, anche a ragione della sua esperienza come Vicesegretario Generale dell’ONU.

Il libro di Antonio Maria Costa è in effetti un lungo saggio (il fatto che sia stato scritto in soli trenta giorni è una incredibile dimostrazione di virtuosismo narrativo e analitico), che elabora i temi della guerra tra la Russia e l’Ucraina, e ne conferma la brutalità senza uguali, rivelandone anche alcuni dei lati meno noti. Il saggio però contiene anche una vena analitica più sottile che scava, forse in parte all’insaputa dello stesso autore, nelle motivazioni più recondite della “dissonanza cognitiva” che la guerra rivela. Questa dissonanza, che comincia, ma non finisce con il risentimento, è alla base di una frattura generazionale crescente della società russa, ed è una delle conseguenze di una “pace insopportabile” che contiene il seme della propria negazione.

Le contraddizioni della pace che la precedeva sono numerose, e confluiscono in quelle della guerra perché, sostiene Antonio Maria Costa, le guerre moderne si vincono o si perdono con le armi economiche, mentre Putin cerca ancora, vanamente, di usare le armi obsolete delle guerre del novecento. Questo significa che Putin non può vincere, ma che, allo stesso tempo può fare danni, anche gravi e, almeno in parte, irreparabili. Come ha dimostrato l’assassinio di Shinzo Abe, un’arma rudimentale è sufficiente ad uccidere, anche se non sarebbe sufficiente a sopravvivere o a vincere una battaglia.

Ma la lezione finale e più interessante del libro di Costa, al di là della pur avvincente narrativa e di cui il lettore potrà far tesoro, è che Putin ha attaccato, in modo più o meno inconsapevole, un altro nemico e grande generatore di risentimento recente: la globalizzazione. Come il capitalismo europeo nell’analisi di Keynes sulle conseguenze economiche della pace, la globalizzazione è stata il frutto della accumulazione di capitali senza precedenti avvenuta nel mondo attraverso lo sviluppo delle catene del valore e la parallela espansione delle disuguaglianze.

La globalizzazione ha permesso l’applicazione su scala planetaria del modello di sviluppo ineguale, con lo sfruttamento del lavoro a buon mercato dei paesi in via di sviluppo e la deindustrializzazione di larghe fasce del loro territorio da parte dei paesi più avanzati. La guerra di Putin, combinata con la protrazione della pandemia ha messo in crisi questo modello, già traballante per ragioni interne, con una serie di conseguenze distruttive che negano le basi stesse dello sviluppo economico realizzato negli ultimi 50 anni.

Allo stesso tempo, quindi, se la guerra ha scatenato le forze del male, ha forse anche liberato il campo per   la “tempesta perfetta” necessaria a uscire da un modello di sviluppo insostenibile e ritrovare un nuovo equilibrio più giusto e ragionevole. Se questo sarà possibile solo il tempo potrà dirlo, ma in questo “la guerra di Putin” è forse solo un incidente della storia.

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