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Isolati mai, la via del federalismo europeo secondo Baretta

Un distacco dall’Europa ci isolerebbe e ci farebbe perdere i vantaggi di una convivenza che ci ha dato molto, soprattutto nei momenti di massima difficoltà, come nella pandemia, e che potrebbe darci addirittura di più se si pensa ad un nuovo Pnrr post-guerra. Pier Paolo Baretta legge l’Italia verso il voto

Depositate le liste si placheranno, via via, le inevitabili polemiche che, più o meno, hanno interessato tutti i partiti, provocate dalle logiche con le quali sono avvenute le selezioni dei candidati, che hanno visto affermarsi le solite liturgie: esclusioni (più degli inserimenti!) più o meno eccellenti e migrazioni dei big tra i collegi. Stavolta l’operazione si è rivelata più complicata a causa del dimezzamento del numero degli eleggibili, del mantenimento in vita di una legge elettorale sbagliata, nonostante ne fossero chiare a tutti le conseguenze, delle tensioni interne alle coalizioni e ai partiti. Aspetti che hanno finito per sacrificare le istanze territoriali.

Ma cosa fatta, capo ha. La breve corsa elettorale finalmente prende il via e si riuscirà (sperabilmente) a parlare di contenuti. I toni iniziali sono già da crociata: l’evocazione del ’48; il richiamo al frontismo, la discriminante Europa sì/Europa…nì. Dei grandi temi, diciamo ideologici, quello che regge di più nella percezione degli elettori è sicuramente l’Europa. Negli anni del patto di stabilità, del “ce lo chiede l’Europa”, il sentimento degli italiani, storicamente europeisti, si era raffreddato e si era affermata una diffusa ostilità verso Bruxelles, peraltro motivata dalle politiche restrittive allora adottate.

Tant’è che in occasione delle ultime elezioni europee si temeva che il sentimento antieuropeista professato da Salvini avesse il sopravvento. Ma gli italiani hanno preferito l’europeismo. La presidenza Draghi, le risorse del Pnrr, la posizione europea sulla guerra hanno rafforzato la percezione positiva dell’Europa. Anche il senso di patria, di nazione è però, giustamente, patrimonio collettivo del popolo italiano. Se scattasse una nuova contrapposizione – ben agitata dalla destra su temi sensibili, quali l’immigrazione e gli approvvigionamenti di materie prime – tra identità nazionale, intesa come autonomia economica, versus integrazione, come rinuncia o riduzione degli spazi di benessere o di crescita, il tema potrebbe riproporsi. Spetta al centrosinistra non cadere nella trappola e dimostrare che la soluzione equilibrata esiste ed è vantaggiosa.

Non un distacco dall’Europa, che ci isolerebbe e ci farebbe perdere i vantaggi di una convivenza che ci ha dato molto, soprattutto nei momenti di massima difficoltà, come nella pandemia, e che potrebbe darci addirittura di più se si pensa ad un nuovo Pnrr post guerra. Ma neppure una unità indistinta, che annulli la fondamentale risorsa rappresentata dalle specificità nazionali. Insomma, un buon federalismo, una credibile Europa federale, rafforzata dal percorso verso l’unificazione politica (… elezione transnazionale del Parlamento, fine del diritto di veto…).

Non entusiasmerà invece l’elettorato, e in particolare i giovani, il confronto fascismo/antifascismo. Non perché non sia un problema, ma perché la sua attualizzazione prende forme e nomi diversi, più sofisticati e subdoli di una condanna dello squadrismo in camicia nera. Nessuno pensa che sia in discussione l’assetto democratico e costituzionale formale, mentre sarà su quello sostanziale (l’assetto istituzionale, i diritti individuali, il concetto di famiglia, l’accoglienza, il mercato, …) che si giocheranno le identità e le politiche.

L’interesse del cittadino elettore, distratto e preoccupato, riguarderà, prioritariamente e nell’ordine, la propria condizione materiale, quotidianamente segnata dalle conseguenze dell’inflazione e dei rincari; il tasso di vivibilità del proprio ambiente e della propria città, sempre più a rischio; le tutele e i diritti garantiti o tolti. Cominciando dalla fine, lo scontro sui diritti sarà comunque molto presente nelle proposte delle forze in campo. E, guardando al futuro, quelle che meritano più di altre di essere agitate sono certamente la cittadinanza per tutti i bambini che frequentano scuole italiane (lo jus scholae) e per chi da tempo ha un regolare lavoro (lo jus soli); la completa parità di genere, ancora inattuata; la tutela della privacy dall’aggressione degli algoritmi… sono questioni discriminanti per un paese moderno e civile.

Il timore che queste posizioni alienino il consenso di una parte dell’elettorato è una ragionevole preoccupazione tattica. Ma quella parte, non marginale, di elettorato attento a questi temi potrebbe leggerla come una grave incertezza strategica e un approccio di convenienza, che sarebbe punito più di una posizione netta, ancorché poco condivisa. Non si vota un partito o una coalizione furbetta, o per un solo tema, ma… per tutto un complesso di cose.

Ed è proprio questo complesso di cose che sta facendo crescere nella sensibilità dei cittadini, in particolare dei più giovani, la domanda di risposte coerenti sulla questione ambientale. Il tema non è il termovalorizzatore, sul quale è inopinatamente caduto Draghi, bensì la capacità di fare scelte in alcuni casi addirittura più radicali, ma comunque orientate a una prospettiva di crescita. Ripensare a un modello di sviluppo che salvaguardi l’ambiente, contrasti le emissioni, riduca il traffico urbano e smaltisca i rifiuti e, al tempo stesso, sappia trovare vie nuove (energie rinnovabili, non fossili, elettrico, idrogeno…) che garantiscano comunque una crescita economica, una nuova stagione industriale, questi sono temi sui quali i cittadini sono, spesso, più avanti delle norme e sono in grado di distinguere tra chi fa demagogia e chi cerca soluzioni.

Temi che si possono affrontare parlando con un linguaggio nuovo anche al mondo imprenditoriale, giustamente preoccupato dal sommarsi di inflazione galoppante, difficoltoso approvvigionamento dei materiali, esorbitante costo dell’energia. Offrendo, cioè, una prospettiva strutturale di adeguamento del modello produttivo (aspetto sul quale l’industria italiana, soprattutto medio piccola, ha dimostrato capacità di eccellenza). La transizione ecologica, perno del Pnrr, è il metro di misura della capacità di costruire un futuro di crescita, ma è anche la sfida più difficile per un’economia in preda a una inedita contraddizione: la positiva crescita del Pil offuscata dall’inflazione e dal costo energetico e delle materie prime.

È su questa difficile condizione economica congiunturale che si innesta anche il disorientamento politico del mondo produttivo: gli imprenditori del Nord, orfani di una Lega salviniana che si è dimostrata non capace di cogliere queste novità; e quelli del Sud, timorosi che la crisi politica comprometta l’arrivo delle attese risorse del Pnrr. Entrambi non riescono a intravedere una rappresentanza politica che li garantisca.

Al contempo, il futuro dell’economia italiana riguarda, ovviamente e direttamente, i lavoratori. E molto ambigua rischia di essere la competizione sui temi sociali, storicamente identitari per le forze riformiste, progressiste e di sinistra, ma sui quali è evidente il tentativo di appropriazione della destra. Il dibattito si è concentrato sulle retribuzioni: taglio del cuneo fiscale nel finale del governo Draghi, flat tax nelle proposte di Salvini, pensioni minime a mille euro proposte da Berlusconi; una mensilità in più e salario minimo per legge da parte di Letta; conferma del reddito di cittadinanza dai 5 Stelle.

Ma in un periodo di inflazione galoppante, la risposta al disagio e alle disuguaglianze è davvero (solo) salariale? L’incremento di potere d’acquisto è ovviamente positivo, ma viene in buona parte assorbito dall’aumento dei prezzi dei beni essenziali e non è sufficiente ad affrontare i costi della casa, dei trasporti, della formazione dei figli (attività artistiche, sportive…), o a garantire la vivibilità delle città. La vecchia questione se sia meglio dare il pesce o la canna da pesca può essere trasposta anche in questo caso: è meglio un aumento di stipendio che si consuma rapidamente o una serie di servizi a basso costo, o addirittura tendenzialmente gratuiti?

Retribuzione e servizi non sono in alternativa e non vanno messi in contraddizione tra loro, e una politica di welfare, soprattutto territoriale, maggiormente qualificata e incisiva può rispondere meglio alla domanda diffusa di benessere, che non trova risposte soddisfacenti.
Se guardiamo al tema dal punto di vista dei diritti, la questione sociale di oggi è ben oltre la storica battaglia per il diritto alla «giusta mercede» da riconoscere ai salariati. La complessità della vita moderna propone ben altre priorità che qualificano la qualità della vita personale e collettiva.

Si pensi, ad esempio, a trasporti pubblici gratuiti per il tratto casa-lavoro. Nelle grandi città il traffico e il conseguente inquinamento sono, come sappiamo, oltre soglia. Inoltre, le tariffe tendono ad aumentare. Una politica tariffaria tendente alla gratuità è una risposta.
Se vogliamo guardare alla famiglia: un piano di edilizia pubblica a vantaggio delle giovani coppie e degli anziani soli autosufficienti, a condizioni agevolate. Una ristrutturazione del cospicuo patrimonio residenziale di proprietà degli enti locali può assicurare, nel giro di pochi anni, un futuro residenziale a una parte fondamentale della popolazione e rigenerare porzioni di città, spesso trascurate. Ancora, il sostegno alle attività educative extra scolastiche per i figli. Alcune di queste attività sono entrate nella vita quotidiana di gran parte della popolazione, indipendentemente dalle condizioni di reddito (la palestra per i figli è una scelta ampiamente maggioritaria). Ma sono tutte attività molto costose, erose dall’inflazione.

Sempre pensando alla famiglia: tasse scolastiche (universitarie comprese) ridotte e strumentazione necessaria (libri di testo, materiale informatico e digitale) gratuita, per generalizzare il più possibile il diritto allo studio. Infine: Tari agevolata in rapporto alla raccolta differenziata. Il livello di differenziata dipende molto dalle condizioni tecnologiche e organizzative dei comuni; ma un punto di equilibrio è necessario per assicurare un efficace smaltimento. In quest’ottica trovare soluzioni per abbattere i costi di coloro che differenziano correttamente è un bel risparmio, oltre che un incentivo.

Tanto più se i Comuni sapranno trasformate la raccolta in occasioni di guadagno: si pensi alla vendita del vetro o dei rifiuti tecnologici.
È evidente che bisogna operare una precisa valutazione dei costi e individuare un piano di medio periodo con esplicite priorità. È altrettanto chiaro che bisogna agganciare queste e altre soluzioni a soglie di reddito, caratteristiche sociali, ambiti di utilizzo e valorizzazione specifici. Ma è l’approccio alternativo che propongono che è importante affermare.

Tutto questo vale in generale, ma a maggior ragione per il Sud, dove la disoccupazione e il nero confondono l’analisi sugli effetti salariali e proprio per questo rendendo la risposta al disagio in termini di servizi e welfare più efficace e convincente di quella salariale. Gli enti locali rappresentano lo strumento migliore per attuare queste politiche e a loro vanno affidate le risorse necessarie a garantire i servizi ai cittadini. In particolare, ai comuni, che conoscendo a fondo la composizione sociale del territorio possono essere fortemente responsabilizzati nella scelta delle priorità. In questo modo, tra l’altro, lo Stato potrebbe finanziare gli interventi degli enti locali e non il loro debito…

Crescita economica e ambiente, impresa, lavoro; welfare e diritti; Europa. Sono solo alcuni degli innumerevoli temi che ci accompagneranno nelle prossime calde settimane. Ma sono quelli sui quali si può far capire agli elettori da che parte stare.

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