Pier Ferdinando Casini, senatore della Repubblica e memoria storica di questi ultimi quarant’anni anni di politica italiana, ha deciso per la prima volta di raccontarsi e raccontare, in un libro dal titolo “C’era una volta la politica. Parla l’ultimo democristiano”. In questo estratto il rapporto con le personalità più importanti della Democrazia cristiana
Ho avuto rapporti molto intensi con tutte le principali personalità della Dc e sono loro grato per il rispetto che da essi ho ricevuto, anche in presenza di aspri scontri correntizi come c’erano in quegli anni. Se penso ai maestri e alle figure che hanno segnato il mio percorso non posso che partire da Toni Bisaglia, leader indiscusso della Dc veneta, con cui ho avuto una grande amicizia e collaborazione. Da lui ho imparato, all’inizio della mia esperienza, l’importanza che la politica sia radicata fra la gente, l’attaccamento che un leader deve avere al proprio territorio, l’ascolto della propria base elettorale, la necessità di un’organizzazione capillare. Uomo di solo apparente freddezza, era portato a confidarsi con noi giovani: «Il più grande investimento per un politico è non dire bugie, perché prima o poi ti si ritorcono contro. Non dire bugie, non solo perché è peccato, ma perché è stupido. Se devi dire una bugia, sii omissivo, non dire niente». Ricordo bene questi e altri moniti semplici, ma con una dose non banale di saggezza popolare. Bisaglia è stato testimone di nozze mio e di Roberta Lubich, il 24 maggio del 1984. È morto un mese dopo, in un tragico incidente in mare al largo di Santa Margherita Ligure. Ricordo questa disgrazia per il grande dolore provato per la sua scomparsa e anche perché da essa trassi una lezione di vita e di politica non banale. Piansi a lungo lacrime vere per Toni, a cui ero legato da un intenso affetto. Ero affranto per la tragedia umana che si era appena compiuta, non pensando certo alle possibili conseguenze, più o meno negative, che da quel fatto sarebbero potute derivare sulla mia carriera.
Siamo nel 1992, durante l’elezione del Presidente della Repubblica, quella che, dopo la strage di Capaci, porterà poi il 25 maggio, al sedicesimo scrutinio, all’elezione di Oscar Luigi Scalfaro. Diversi giorni prima la Dc candida Forlani, d’accordo con i socialisti, i liberali, i socialdemocratici e i repubblicani di Giovanni Spadolini. Il mio collega Gianfranco Fini, già segretario del Movimento sociale italiano, da me interpellato dichiarò esplicitamente che sarebbero stati disposti a votarlo in cambio di un riconoscimento politico alla destra, in quel tempo esclusa dal cosiddetto arco costituzionale per una convenzione comunemente accettata. Ma Forlani fu irremovibile: «Non lo farò mai!». E questo nonostante fosse chiaro a tutti che, nelle stesse ore, Giulio Andreotti si stava attivando tramite parlamentari come Alfredo Pazzaglia per attirare a sé i voti del Msi in diretta concorrenza col segretario del suo partito.
Un episodio emblematico della sua coerenza e linearità. Nella votazione del 16 maggio 1992 a Forlani mancarono 29 voti per essere eletto Presidente della Repubblica. Era risaputo da tutti che i franchi tiratori in servizio permanente ed effettivo erano appunto gli andreottiani. Ricordo che assistetti, in una stanza al piano Aula, allo spoglio delle schede insieme a Giuliano Amato e Antonio Gava. I voti non erano sufficienti e a un certo punto, nell’imbarazzo generale, qualcuno si alzò dicendo: «Arnaldo, ti rivoteremo domani e ce la farai!». E lui con l’accento marchigiano rispose: «Domani? Ma domani è un altro giorno. Io ho già dato!». A quel punto, si rivolse a me chiedendomi di accompagnarlo a casa. Abitava all’Eur e, durante il tragitto in auto, cominciò a divagare sull’Inter di cui era accanito tifoso. Il viaggio era interminabile perché si andava a passo d’uomo come sua abitudine e il silenzio era veramente spettrale. Arrivammo nel suo giardino e timidamente domandai: «Presidente, allora domani ritentiamo?». E lui: «Pier Ferdinando, ricordati: nella vita c’è un inizio e una fine. E stavolta è finita. Stai tranquillo, nella vita si vince e si perde, è la regola del gioco. Solo con gli anni capirai che il potere è un’illusione ottica!». Mi salutò sorridendo mentre giocava col suo cane lupo. Per lui andava bene così.
Pubblicato per Piemme da Mondadori Libri S.p.A.
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