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Come riformare il Patto di stabilità. I consigli di Pennisi

Ci si dovrebbe chiedere se non valga piuttosto la pena selezionare per i Paesi che ne hanno esigenza, settori il cui riassetto è indispensabile perché il resto funzioni  e puntare su programmi di riequilibrio settoriale, più facili da allestire. Il commento di Giuseppe Pennisi

Stanno entrando nel vivo, a livello tecnico degli esperti economici e dei rappresentanti permanenti presso le istituzioni europee, le trattative su come riformare il Patto di crescita e stabilità per monitorare la finanza pubblica dei 27 Stati dell’Unione europea (Ue). Il Patto, come è noto,  è sospeso dall’inizio della pandemia. La Commissione europea ha fatto proposte che sono state chiamate coraggiose e lungimiranti. Questa testata le ha riassunte e commentate più volte.

In estrema sintesi, Bruxelles propone di organizzare il rapporto con gli Stati membri nel modo seguente. La Commissione europea presenterà per ogni Stato membro un percorso di aggiustamento del debito su un periodo di quattro anni, estendibile a sette. In risposta alla proposta comunitaria, il singolo Stato metterà sul tavolo il proprio percorso di aggiustamento, tenendo conto delle sue priorità economiche, riforme e investimenti. Nei due casi, il metro di riferimento deve essere la spesa netta primaria.

La Commissione europea sarebbe poi chiamata ad approvare il piano nazionale, dopo un prevedibile negoziato. L’importante, spiega Bruxelles, è che “il percorso del debito rimanga discendente o si mantenga su livelli prudenti, e che il deficit di bilancio rimanga al di sotto del 3% del Pil nel medio termine”. Non c’è proposta per i Paesi con un forte e crescente surplus dei conti con l’estero; quindi, l’attuale asimmetria tra Paesi tendenti al disavanzo e quelli, invece, tendenti all’avanzo viene mantenuta. I 27 Paesi vengono divisi in fasce a seconda del grado di rischio che il loro debito comporta.

Come sottolineato da Lorenzo Bini Smaghi, questa è una trappola per l’Italia: finire (con la Grecia e forse un paio di altri) tra gli Stati ad alto rischio, ci chiuderebbe subito l’accesso al mercato internazionale e potrebbe essere il detonatore di una crisi analoga a quella del 2011. Si può aggirarla eliminando “le fasce” e chiedendo che la “sostenibilità” venga valutata da un team della Commissione, del ministero dell’Economia e delle Finanze (che si è dotato di un’ottima struttura econometrica) e, se possibile, da uno o due esperti esterni (anche non cittadini dell’Ue) di chiara fama. Non si avrebbe lo “stigma iniziale” e il giudizio sarebbe più ponderato. È un consiglio non richiesto, ma forte ai nostri negoziatori.

Occorre, poi, ricordare che la proposta ha complessivamente un sapore d’antico: ricorda il Rapporto Brandt del 1980 quando si formalizzò il finanziamento del “riassetto strutturale” che Banca mondiale e Fondo monetario stavano sperimentando da alcuni anni. Da allora, è passato circa mezzo secolo. Bilanci del finanziamento del “riassetto strutturale” ne sono stati fatti molteplici: tra i più recenti, uno dell’economista austriaco Kurt Bayer, che ha avuto ruoli di rilievo alla Banca mondiale ed alla Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo.

L’esperienza mostra luci ed ombre, che sarebbe difficile riassumere in un articolo. Nell’ambito di un gruppo di Paesi che hanno l’ambizione di diventare un’”Unione sempre più stretta”, ci si dovrebbe chiedere se programmi complessivi di “riassetto strutturale” siano la strada giusta o portino a “libri dei sogni” come, in Italia, il Progetto Ottanta, varato tra la fine degli Anni Sessanta e l’inizio degli Anni Settanta del secolo scorso, quando si pensò, per un certo periodo, che la programmazione economica a medio e lungo termine sarebbe stata la via maestra per risolvere i problemi del Paese.

Oggi non solo non c’è più questa illusione. Si ha, invece, contezza delle difficoltà non solo politiche ma anche tecniche di impiantare una programmazione complessiva pluriennale che abbracci aspetti macro-economici, settoriali e micro-economici. Ci si dovrebbe chiedere se non valga piuttosto la pena selezionare per i Paesi che ne hanno esigenza settori il cui riassetto è indispensabile perché il resto funzioni (in Italia, ad esempio, la sanità; in Francia, la previdenza; e così via) e puntare su programmi di riassetto settoriale, più facili da allestire, monitorare e correggere in corso d’opera Non mancano esempi nella stessa Ue, ad esempio a riforma del settore bancario in Irlanda.

Un ultimo punto è quella che pare essere una sconfinata fiducia nell’investimento pubblico. Se l’investimento pubblico assicurasse crescita, il Mezzogiorno d’Italia sarebbe la California del Sud dell’Ue. Negli Anni Novanta sono stato consulente della Commissione europea in questa materia. Il manuale che venne prodotto non è mai stato pubblicato perché ritenuto “troppo complicato” e “troppo vincolante” le scelte puramente politiche. Nel nuovo Patto di crescita e stabilità si dovranno pur mettere alcune cifre in materia di “parametri di valutazione” (tasso di rendimento interno, analisi di rischio, analisi di rischio) a cui i singoli progetti devono rispondere e di “criteri di scelta” per selezionare tra i progetti singolarmente eleggibili il gruppo che meglio corrisponde agli obiettivi del riassetto?

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