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L’editoria è una storia d’amore, soldi e potere. Memorie di Ferrari

Gian Arturo Ferrari, già a capo della Mondadori e autore di una “Storia confidenziale dell’editoria italiana”, racconta la sua vita movimentata a Formiche.net: “Lavoriamo sull’impossibile equilibrio tra il Dio della cultura e il Mammona del denaro. Meglio divertirsi nelle guerre editoriali che stare tra le comodità accademiche”

Pappagalli e canarini, variamente colorati, divertiti dai loro stessi segreti sussurrati: è il ‘select committee’ che in copertina custodisce e cinguetta questa “Storia confidenziale dell’editoria italiana” stesa da Gian Arturo Ferrari. Chi è Ferrari, è presto detto: la Mondadori – per dire la più grande delle case editrici che ha guidato – per molto tempo ha avuto la sua faccia e parlato con la sua voce. Chi finge di essere, è molto più divertente: il Dart Fender della nostra editoria. Guerre stellari, altro che Segrate. Wikipedia ci informa che secondo una classifica Dart Fener (o Darth Vander nell’originale) è il terzo cattivo più cattivo della storia del cinema, dopo due psycho come Hannibal Lecter e Norman Bates. Pericolosissimi, ma pur sempre umani. DF, no: lui è di un’altra galassia.

Ferrari, ma davvero lei è così cattivo?

Cosa vuole? Bisogna pure che qualcuno faccia quella parte lì. Purtroppo è necessaria…

Nel gioco delle parti, chi è il vero editore? È una domanda che torna spesso nel libro.

All’origine, quando l’editoria era relativamente piccola, l’editore coincideva con lo stampatore. Poi il mercato ha scisso sempre di più i ruoli: c’è chi i libri li vende, chi li mette su carta, chi li immagina, chi li promuove… Per tornare alla domanda: l’editore è il proprietario della casa editrice oppure il direttore editoriale, “l’editoriale”, che della casa editrice è l’anima perché decide quali sono i libri da pubblicare? Beh, ognuno scioglie la domanda come crede.

Lei non la scioglie direttamente, ma tra le righe, se non ho capito male. Lasciando intendere che il più grande editore italiano sia stato Luigi Rusca. Leggendario capo editoriale della Mondadori. Uomo a cui si devono, tra le moltissime, due intuizioni che da sole valgono una carriera: i romanzi polizieschi che diventano “i gialli”, dal colore della copertina con cui vengono in serie pubblicati; e l’Eiar fascista che sotto la sua guida, nella Roma liberata in cui l’antifascista Rusca arriva dopo il confino, cambia nome in Rai.

Rusca, nel periodo in cui ha operato, è stato senza dubbio il più intelligente. L’uomo con la visione più sicura. Un preveggente che ha capito prima di tutti una serie di cose. Il mio innamoramento per l’editoria lo devo a Cesare Pavese. Ma il nume tutelare di tutta la mia maturità è stato senza dubbio Rusca.

L’editoria, lei dice, è un Giano bifronte: il Dio della cultura sta con il Mammona del denaro. Ma alla fine prevale l’uno o l’altro?

Il capitalista propende per il secondo, l’editoriale per il primo. Ma il bello del mestiere è proprio tenere insieme questi opposti, conciliare l’inconciliabile.

L’editore, chiunque egli sia, esattamente cosa fa per un libro? Di suo – riprendo la citazione che lei fa di Valentino Bompiani – “l’editore ci mette l’amore”. È così? E cos’è questo amore?

È di sicuro il motore primo. Dopotutto non si decide di dedicarsi all’editoria senza avere una passione originaria, meglio se cieca, per i libri, senza amare i libri profondamente, più di ogni altra cosa. Aggiungerei, però, che noi editoriali ci sentiamo come Julien Sorel, cerchiamo ricompensa perché la nostra intelligenza è ben superiore a quanto la fortuna e la società ci abbiano inizialmente dato…

Lei scrive che gli editoriali sono uniti “dall’ambigua solidarietà dei camerieri, del personale di servizio o dei servi di scena, quelli che stanno dietro le quinte, che sanno cosa c’è dietro”. Quelli che conoscono e praticano “il dark side, le umilianti trattative, gli inganni, le menzogne, le sopraffazioni”. Eppure continuano a sentire intatta “la fascinazione per la genesi impura di quanto di meglio gli uomini sono stati capaci di fare su questa terra”. Il meglio, ecco. Qual è stato il meglio della sua carriera?

Non un libro, ma il team che ho creato negli anni in un’azienda grande come la Mondadori. In fondo, fare una squadra quando una casa editrice è piccola, è relativamente facile: perché c’è uno al vertice che decide tutto quanto e via. Ma operare su grandi numeri, con differenti sensibilità, in un’azienda che deve occuparsi di tutto, e dare a questo tutto un’identità, è un lavoro molto più complicato. Ma necessario. Senza una banda, non si va da nessuna parte.

E l’errore più grande?

È difficile, gli errori fanno parte del lavoro, sono parte integrante della quotidianità… Comunque, forse non aver preso Harry Potter.

Lei dice che il libro è dell’autore, ma fino a un certo punto. Per metà è dell’editore. Che vuol dire?

L’autore certamente il libro lo scrive, ma il modo in cui esso arriva sul mercato, come è percepito dal pubblico, cosa il libro diventa quando non sta più solo nel cassetto dello scrittore ma è a disposizione del mondo, questo è responsabilità in larghissima misura dell’editore.

Qual è il più grande colpo dell’editoria italiana?

Dopo la Bibbia, pare che il libro più venduto al mondo sia il Pinocchio di Collodi, edito dai fiorentini Bemporad. Poi “Il nome della rosa” di Umberto Eco che nella Bompiani aveva anche un importante ruolo editoriale. Aggiungerei “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa che Feltrinelli decise di pubblicare dopo molti rifiuti. In quel caso l’atto di editare quel libro è molto più che una semplice pubblicazione.

Equivale cioè alla scrittura stessa? Dovremmo dire che “Il Gattopardo” è un libro di Tomasi di Lampedusa e di Feltrinelli?

Per molti versi, sì. E poi devo dire che ha un titolo straordinario.

A proposito di titoli, lei gioca su un paradosso: meglio un buon titolo e niente libro che un buon libro e niente titolo.

Un paradosso che vuol puntare l’attenzione su uno dei tre elementi che accendono l’interesse su un libro, insieme alla copertina, che cattura lo sguardo del possibile lettore, e insieme al nome dell’autore. Il titolo è il grande negoziato tra l’autore e l’editore. E ha sue regole. La regola aurea del titolo è l’indefinitezza. Prendiamo il più bel titolo di tutti i tempi: “Via col vento”, persino più bello in italiano dell’originale “Gone with the wind”. “Via col vento” non vuol dire niente, non dice nulla del romanzo della Mitchell. Ma fa il libro. I grandi titoli non sono esplicativi, ma suggestivi. Altro grande titolo: “L’insostenibile leggerezza dell’essere”: non indica qualcosa, ma costruisce un sentimento sulla storia di Kundera.

Salman Rushdie, pochi mesi fa vittima di una grave aggressione, è tornato in libreria con “La città della vittoria”. Lei dedica un capitolo alla pubblicazione dei “Versetti satanici”, che gli costarono la fatwa di Khomeini. Il traduttore italiano di quel libro, Ettore Capriolo, fu vittima di un attentato per fortuna non mortale, il traduttore giapponese fu invece assassinato… La pubblicazione di un libro può essere un atto di coraggio?

Un libro non è una categoria dello spirito, è una manifestazione dell’umano, può contenere il bene e il male, la viltà e il coraggio… Sono contrario alla santificazione del libro, gli va tolta l’aura sacrale che è pura retorica. Peraltro spesso si confondono i libri con la letteratura. I libri sono la massa di quello che arriva sul mercato, per varie ragioni e diverse circostanze. Il sedimento fisso di questa materia, il sedimento che sa superare la prova del tempo, è la letteratura.

La Rizzoli che cade in mano alla P2. La guerra di Segrate per Mondadori. L’Einaudi che finisce in amministrazione controllata. L’editoria italiana è stata un vero campo di battaglia. Perché un professore di Storia del pensiero scientifico come lei sceglie di andare a combattere?

Proprio per il gusto della battaglia! Per il piacere che dà stare sulla linea del fronte, così lontano dalle comodità accademiche… Mai mi sono divertito nella vita come quando ho guidato la Mondadori, anche se il momento imperiale, l’apice del potere, è stato il governo del continente formato da Mondadori, Einaudi, Sperling & Kupfer…

“La berlusconiana Mondadori”, come la definisce ripetute volte con un vezzo. Lei al riguardo dice: Berlusconi aveva l’intelligenza di affidarsi a chi di libri ne capiva più di lui.

Non che non ne capisse, direi che aveva una concezione scolastica dell’editoria, non credo che nell’editoria abbia trasferito quello che davvero sentiva, non c’era quell’amore di cui parlava Bompiani. Tuttavia, fu uno dei primi campi, diciamo in senso lato, in cui si cimentò da giovane: faceva le dispense dei corsi universitari che seguiva e poi le vendeva.

Se un ricco imprenditore venisse da lei e le chiedesse di mettere in piedi una casa editrice, che farebbe come prima cosa?

Beh, intanto, se è davvero ricco, comincerei col chiedergli un bel po’ di soldi.

Milano è la capitale dell’editoria, ma il fermento degli indipendenti è a Roma.

Milano continua a mantenere la sua primazia, è la città dove l’editoria ha saputo evolvere in grande industria, Milano si è mangiata anche Torino… L’industria culturale a Roma è storicamente legata al cinema. Poi si è aggiunta la Rai, e poi altre imprese televisive, e poi “la Repubblica”, il quotidiano italiano più influente sul mondo della cultura. Insomma, Roma è cresciuta, tantissimo. Ha molte realtà di tutto rispetto e grande successo. Penso che il punto più alto dell’editoria romana sia Stile Libero, che ha volato tuttavia sotto l’ala prestigiosa dell’Einaudi.

Perché in Italia si pubblica molto ma si legge poco?

Si pubblica molto perché è un Paese in cui c’è un oggettivo fermento. Ma si legge certamente poco, io credo per due motivi. Primo: la lettura è stata spesso fatta passare come attività signorile, un otium riservato a chi non lavora, a chi può permetterselo. C’è poi il peso di una certa cultura cattolica: nella prima edizione dell’Indice dei libri proibiti, c’era la Bibbia in volgare. Perché la Bibbia, che non è un libro ma una collezione di libri, secondo la Chiesa andava letta solo in latino, cioè solo dal clero. Dubito fortemente che l’Altissimo direttore editoriale potesse essere d’accordo…

Ferrari, per chiudere, perché in copertina questa “Storia” è presentata come romanzo?
Perché volevo presentarla come un succedersi di vicende romanzesche… Ci sono molti modi di scrivere una storia dell’editoria: quello che volevo evitare assolutamente era il modo barboso, accademico, impettito. E allo stesso tempo ho voluto evitare di infilare pettegolezzi e ciarle… Una storia è come la verità: non c’è quella assoluta. La verità è una questione di livelli, dipende da te a quale altezza raccontarla.

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