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Nessuno al Congresso crede alle parole del ceo di TikTok

Shou Zi Chew ha presentato la sua piattaforma come un luogo in cui il governo di Pechino non può entrare. La vacuità di molte sue risposte ha lasciato però l’amaro in bocca ai deputati, che non sembrano aver cambiato idea

“Può assicurare al 100% che il governo cinese non possa usare TikTok o la società che la controlla, ByteDance, per sorvegliare gli americani o manipolare i contenuti che vedono?”. “La società è impegnata a difendere i dati degli statunitensi da tutti gli accessi stranieri non voluti e manterrà i contenuti liberi dalla manipolazione di qualsiasi governo”. “Se non può assicurarlo al 100%, allora prendo la sua risposta negativa”.

La traduzione dello scambio tra la presidente della commissione alla Camera, la repubblicana Cathy McMorris Rodgers, e il Ceo di TikTok, Shou Zi Chew, non è quella delle più letterali ma rende bene l’idea di come lo scetticismo sembri essere la parola riassuntiva di una giornata attesa da tempo. L’amministratore delegato si è presentato a Capitol Hill per giustificare le azioni della sua azienda e per rassicurare i parlamentari statunitensi, pronti a bannare l’app per evitare che la Cina possa entrare in possesso dei dati degli utenti e manipolare l’opinione pubblica. Proprio per questo Chew si è portato dietro numerosi imprenditori, per testimoniare l’importanza che TikTok riveste per le società americane, oltre che per gli utenti, arrivati a 150 milioni negli Stati Uniti. Che ci sia riuscito è una bella domanda ma, all’apparenza, non sembrerebbe.

“Non ho visto alcuna prova” di ingerenza, ha affermato, né tantomeno ha mai discusso con i funzionari del suo governo nelle vesti di Ceo. “La sicurezza è la nostra priorità. Non vendiamo dati ai broker. Siamo impegnati nella trasparenza”, ha assicurato rispondendo anche alla domanda se qualcuno lo avesse o meno aiutato a prepararsi il suo intervento: “Questa è un’audizione di alto profilo, il mio cellulare è pieno di messaggi di buona fortuna e di consigli non richiesti”. Il che può voler dire tutto e niente, perché tra questi ultimi potrebbero essercene alcuni arrivati direttamente dal governo centrale di Pechino. Così come “evasiva” è stata la risposta sulla persecuzione degli uiguri da parte della Cina, mentre l’aula si aspettava una condanna più netta. Ma è tutta la vicenda ad essere nebulosa.

Più diretto è stato invece nel rispondere sul messaggio che TikTok rischia di veicolare, specie nelle giovani generazioni, le più presenti sulla piattaforma social. Secondo un ultimo sondaggio della Cnn, il 67% dei teenagers americani ha un profilo aperto. Alla domanda di chi gli chiedeva un parere sulla diffusione di materiale legato all’uso di oppioidi – un riferimento al gioco virale Benadryl Challenge, in cui alcuni adolescenti si sfidano a colpi di psicofarmaci e antiallergenici, con (delle volte) annessa tragedia – Chew ha risposto, in qualità di rappresentante di TikTok, che la sua azienda “non permette uso di droghe”. Così come dà molta attenzione ai suoi utenti minorenni, tutelati in ogni Paese. I suoi figli, ad esempio, non sono registrati su TikTok perché vivono a Singapore, che vieta l’utilizzo dell’app per gli under 13. Tuttavia, ha precisato, se vivessero negli Stati Uniti non avrebbe alcun problema a lasciarglielo utilizzare.

La strategia del Ceo di TikTok, che di fronte alla pressione dell’aula è apparso un po’ agitato oltre che irritato per diverse interruzioni mentre offriva la sua versione, era chiara: presentarsi come un interlocutore serio, capace di ascoltare e di fugare i dubbi di chi ritiene la sua azienda un pericolo per la sicurezza nazionale. “Il nostro approccio non è mai stato quello di ignorare o banalizzare queste preoccupazioni”, ha affermato di fronte alla commissione. Le abbiamo affrontate con azioni concrete, dobbiamo conquistarci la vostra fiducia”.

Lo ha fatto con il famigerato Progetto Texas dal valore di 1,5 miliardi di dollari, che deve essere ancora approvato dal Committee on Foreign Investment in the United States (Cfius). Un investimento enorme con cui si prova a cancellare le paure americane, conservando i dati degli utenti all’interno del territorio statunitense. Soprattutto, finora, i tecnici cinesi possono manipolare quegli stessi dati, blindati in dei database a Singapore o in Virginia. Questo perché “ci affidiamo all’interoperabilità globale e abbiamo dipendenti in Cina. Quindi sì, gli ingegneri cinesi hanno accesso ai dati globali per motivi di lavoro”. In sintesi, “ci sono ancora dei dati che possiamo cancellare”, ha ribadito Chew. Detto ciò, ha garantito, “Tiktok rimarrà un posto per la libertà di parola e non di manipolazioni da parte di governi. Saremo trasparenti e daremo accesso a terze parti indipendenti per i controlli”.

Il fatto è che, sulla Cina, gli americani hanno entrambi gli occhi ben aperti e il tentativo di Chew rischia di naufragare di fronte alla sfiducia dei deputati a stelle e strisce. Come ha affermato il democratico Tony Cardenas, l’unico in aula ad avere un profilo aperto su TikTok, l’amministratore delegato è riuscito a unire il Congresso, con decine di membri pronti a torchiarlo sulla commistione tra la sua piattaforma e la politica cinese. Con i Ceo delle altre Big Tech, invece, si è in qualche modo allargato il discorso sviando da alcune questioni centrali.

Più sicuro degli altri è sembrato essere il capogruppo dei democratici in commissione, Frank Pallone. “Credo ancora che il governo comunista controllerà e avrà la capacità di influenzare quello che fa”, ha affermato cercando di non farsi impietosire. L’intenzione di TikTok è quella di rifarsi la veste, accogliendo le richieste di indipendenza arrivate da Washington per evitare un clamoroso divieto, ma presentarsi come “una società innocua che fornisce un servizio pubblico, non me la bevo”.

L’ultimatum lanciato da Joe Biden e dalla sua amministrazione, qualora l’azienda voglia continuare a operare in America, è la vendita totale delle quote cinesi. Impossibile, è la replica di Pechino, perché ciò vorrebbe significare l’export della tecnologia, su cui il governo deve prima esprimersi. “Se la notizia [della messa al bando] è vera, la Cina si opporrà con forza”, ha affermato il portavoce del ministero del Commercio, Shu Jueting.

A imporre un divieto definitivo ci aveva provato Donald Trump, proprio allo scadere del suo mandato, ma due giudici federali hanno bloccato tutto. L’ultimo, Carl Nichols, la definì un’azione arbitraria e capricciosa da parte del governo americano, che stava scavalcando i suoi poteri. Certo è che una soluzione andrà trovata, come ha affermato il segretario di Stato, Antony Blinken. Questa diatriba “deve finire, in un modo o nell’altro”. Ma non oggi.

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