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Cosa rimane del G7 giapponese in vista di quello italiano? Risponde Mayer

L’anno prossimo la presidenza italiana dovrà dare impulso, continuità e sostanza a una visione nuova del summit, aperto ai problemi del mondo e non condizionato esclusivamente dagli interessi e dalle politiche dei Paesi più avanzati

Meglio tardi che mai. La presenza di Luiz Inácio Lula da Silva e Narendra Modi, rispettivamente presidente del Brasile e primo ministro dell’India rispettivamente, al summit dei leader G7 a Hiroshima, in Giappone, è stato un segno di lungimiranza politica. Speriamo non resti un elemento episodico.

Già nel 2009, a L’Aquila, Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio, dopo animate discussioni con il presidente francese Nicolas Sarkozy che non ne voleva sapere, invitò al summit G8 importanti leader mondiali che rappresentavano il resto del mondo (il primo ministro indiano Manmohan Singh, il presidente sudafricano Jacob Zuma, lo stesso Lula, anche allora presidente del Brasile, per citarne alcuni). Nel corso dei quasi 15 anni che separano il vertice de L’Aquila da quello di Hiroshima, Stati Uniti, Giappone e i Paesi europei membri del G7 non hanno concertato strategie diplomatiche lungimiranti in direzione dei Paesi emergenti. E questa assenza politica è andata a tutto vantaggio di Russia e Cina.

L’anno prossimo la grande sfida della presidenza italiana del G7 dovrà essere, a mio avviso, quella di dare impulso, continuità e sostanza a una visione nuova del G7, un summit aperto ai problemi del mondo e non condizionato esclusivamente dagli interessi e dalle politiche dei Paesi più avanzati.

Da un lato è essenziale che il G7 continui a promuovere i grandi valori di libertà e solidarietà su cui si fondano le società aperte, dall’altro è importante che si faccia carico di preoccupazioni o anche soltanto di percezioni che provengono da realtà diverse da quelle occidentali. Una maggiore e più intelligente attenzione dei G7 ai Paesi più fragili del mondo è anche la condizione per far vincere i valori della società aperta rispetto ai disvalori (per esempio la sorveglianza tecnologica di massa) promossi dal totalitarismo politico cinese e da altri regimi dispotici. In una battuta si tratta di superare gradualmente la classica divisione “The West and the Rest” che mal si attaglia al mondo di oggi. Si pensi alle grandi sfide globali: cambiamento climatico, transizione energetica, sicurezza internazionale, global health, stabilità finanziaria, sicurezza alimentare, diritti delle donne.

La diplomazia italiana – ma anche il mondo della ricerca e la società civile – hanno davanti mesi di intenso lavoro in vista del summit che, come ha annunciato Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, si terrà in Puglia nella seconda metà del giugno 2024. Allargare la platea degli attori politici coinvolti nella preparazione del G7 è una sfida impegnativa perché si tratta di conciliare interessi e percezioni divergenti. Tuttavia, è fondamentale adeguare la politica internazionale – e in particolare l’approccio strategico dei G7 – alla mutata realtà che caratterizza il mondo contemporaneo.

Prendiamo per esempio l’Europa e l’India. Si è visto a Hiroshima che l’Unione europea (Francia e Germania in primis) hanno ammorbidito la posizione ritenuta troppo dura di Stati Uniti, Giappone e Regno Unito verso la Cina, mentre non è stato difficile rendere più dure e più ampie le sanzioni verso la Russia. L’India ha il problema esattamente opposto all’Unione europea: la minaccia principale cui far fronte è la Cina, mentre la Russia (al di là dell’Ucraina) non è un problema, tant’è che tra Nuova delhi e Mosca si sviluppano tuttora normali relazioni bilaterali. Un secondo esempio importante riguarda l’Africa. Numerosi Paesi africani non si sono opposti apertamente all’invasione russa in Ucraina ed è nostro dovere chiederci il perché. Una delle ragioni è che in Africa la percezione dominante è che gli Stati Uniti e l’Unione europea si siano impegnati a fondo contro l’aggressione militare della Russia in Ucraina per il solo motivo che l’Ucraina è in Europa. Ma il “dossier Russia” non riguarda solo il continente europeo.  La Federazione Russa, le aziende russe (fabbricanti e commercianti di armamenti e minerali preziosi, eccetera) e il gruppo paramilitare Wagner portano avanti – in forme diverse – iniziative espansive e azioni aggressive in buona parte del continente africano: Mali, Libia, Repubblica Centrafricana, Burkina Faso, Sudan, Mozambico, Sud Africa, eccetera.

La rivista Foreign Affairs ha dedicato ai Paesi africani e ai non allineati il suo ultimo numero: “The non Aligned World”. Leggendo gli articoli è difficile dar torto a quanti lamentano un atteggiamento del G7 troppo eurocentrico. Allargare lo sguardo e l’attenzione politica ai Paesi africani in cui la Russia cerca di fare da padrona potrebbe in effetti rendere più credibile il ruolo e il prestigio internazionale dell’Europa e dei G7.  Invece di inseguire la chimera di improbabili partnership pubblico-privato (o limitare i propri interventi al blocco dei flussi migratori) il G7 a presidenza italiana dovrebbe inaugurare una nuova politica per l’Africa che metta innanzitutto al centro i bisogni primari delle persone (alimentazione, acqua, istruzione e salute innanzitutto).

In vista del G7 dell’anno prossimo è inoltre importante ricordare che in un mondo tendenzialmente bipolare le alleanze sono determinanti. Per esempio, per contenere l’espansionismo cinese non bastano solo gli Stati Uniti. Purtroppo negli anni di Donald Trump questo elementare dato di fatto è stata ignorato.

A proposito di Cina un elemento su cui è possibile costruire un consenso molto ampio è il seguente: le imprese cinesi (tranne in pochi settori sensibili) sono libere di muoversi e investire senza particolari vincoli in giro per il mondo, ma non c’è reciprocità. Un’impresa straniera quando vuole investire in Cina ha mille condizionamenti, non può muoversi in libertà e non può avere mai il pieno controllo dell’ azienda che ha comprato o intende comprare. Questa realtà ha consentito alla Cina di approfittare dei vantaggi della globalizzazione senza aprire il proprio mercato dei capitali. Questo mix di protezionismo domestico e di aggressiva espansione internazionale ha irritato moltissimi Paesi e tutti i principali operatori economici mondiali. Si tratta di una asimmetria che il prossimo G7 potrebbe approfondire in coerenza con la politica di de-risking decisa a Hiroshima nei confronti del Dragone. Come scrive Francesco Sisci la Cina è a un bivio: tornare alle strutture imperiali o di raddoppiare sull’apertura al resto del mondo? Per la verità, dallo scorso marzo a oggi tutti i giornali economici segnalano un’ampia stretta sugli investitori stranieri in Cina.

Potrei continuare segnalando altri temi di riflessione, ma gli esempi a cui ho fatto riferimento suggeriscono l’esigenza di scavare in profondità. L’importante è che il prossimo G7 all’italiana si fondi su un pensiero strategico solido da costruire e discutere con i nostri alleati del G7, con gli altri Paesi partner e con le migliori energie intellettuali di cui il mondo dispone. Quando si affronta la preparazione del G7 più che a come realizzare un evento occorre pensare a costruire una strategia adatta alle grandi sfide globali, un lavoro difficile, ma di grande interesse politico ed intellettuale in cui tutti dobbiamo sentirci impegnati.

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