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Così la Cina ha provato a censurare Hong Kong alle Nazioni Unite

La rappresentante cinese che prova a far tacere Sebastian Lai, figlio del dissidente incarcerato, non costituisce un episodio minore anche se colpevolmente ignorato dai media italiani. Abbiamo il dovere di protestare per la repressione in atto dal 2020 ad Hong Kong, nonché di schierarci per la libertà di parola e la libertà di pensiero in tutte le sedi internazionali

A Ginevra la rappresentante della Cina durante la 53^ sessione del Consiglio dei diritti umani dell’Onu ha chiesto di interrompere la testimonianza di Sebastian Lai, figlio del noto dissidente di Hong Kong, da tre anni incarcerato per la sua attività di protesta.

Lai era anche editore di Apple Daily, uno dei giornali più letti di Hong Kong sino alla sua soppressione nel 2021.

Il Consiglio dei diritti umani dell’Onu è talvolta condizionato dalla imbarazzante presenza di stati autoritari, ma questa volta è andata bene. Il dritto universale alla libertà di parola è stato rispettato. La richiesta della Cina non è stata accolta e Sebastian Lai ha potuto completare il suo discorso.

Non si tratta di un episodio minore anche se colpevolmente ignorato dai media italiani. Esso pone, infatti, un interrogativo su quali siano i reali interessi nazionali dell’Italia (tanto spesso richiamati da Giorgia Meloni) e quale sia la postura che il nostro paese deve assumere nei confronti del Dragone.

Sul piatto della bilancia ci sono due opzioni, la prima è chiara e guarda agli interessi di breve periodo. La seconda opzione che guarda agli interessi di lungo periodo e che tiene conto della tutela dei diritti umani è ancora avvolta in una nube di incertezza.

Nel primo schieramento ci sono ovviamente gli imprenditori italiani che operano in Cina e che sono preoccupati di perdere i loro partner e la loro clientela. Autorevole espressione di questo gruppo di imprenditori è – ad esempio – Mario Boselli, Presidente della Fondazione Italia Cina (e già attivissimo presidente di Federtessile negli anni Novanta) che spinge per il rinnovo del memorandum per la Via della Seta.

Dall’altra ci sono le posizioni più articolate e ambivalenti dei partiti politici che – salvo l’ortodossia filocinese di Beppe Grillo e dei 5 Stelle – non sanno ancora esattamente che pesci pigliare. Giorgia Meloni sembra propendere per il non rinnovo, ma preferisce agire soltanto dopo un voto parlamentare.

L’episodio di Ginevra che ho citato in apertura è molto grave perché emblematico e dovrebbe tagliare la testa al toro. L’Italia può stare dalla parte di chi non concepisce la libertà di parola?

Nessuno nega che si possano concludere accordi commerciali nell’interesse delle nostre aziende, ma come si può legittimare un accordo strategico con un regime politico che pretende di togliere la parola ad un dissidente e per di più nella sede solenne delle Nazioni Unite? La libertà di parola non è né di sinistra né di destra, non è né occidentale né orientale. La libertà di parola è semplicemente “sacra”.

Errare humanum perseverare autem diabolicum. Nel 2019 (per altro prima della repressione di Hong Kong) l’Italia è stato l’unico paese del G7 a firmare il memorandum della Via della Seta e ha sbagliato.

Ma rinnovarlo oggi sarebbe più grave perché comprometterebbe la buona reputazione internazionale dell’Italia, presupposto e pilastro indispensabile per perseguire i nostri interessi nazionali.

Rinnovare l’accordo per la Via della Seta significherebbe dare piena legittimità a chi da tre anni (violando gli accordi internazionali) ha voluto soffocare la voce libera della libera città di Hong Kong, presidio delle libertà civili in Asia e nel mondo.

La repressione voluta da Pechino continua peraltro senza sosta. Il South China Morning Post di oggi racconta che la polizia ha messo una taglia di un milione di HK dollari a favore di chi collabora alla cattura di otto dissidenti.

L’Italia per almeno due secoli ha subito la drammatica vicenda storica della Santa Inquisizione e della Controriforma. Proprio per avere vissuto questa tragica esperienza abbiamo il dovere di protestare per la repressione in atto dal 2020 ad Hong Kong, nonché di schierarci per la libertà di parola e la libertà di pensiero in tutte le sedi internazionali.

Sulla base di questi valori servirebbe una politica estera ispirata all’unita nazionale; mi auguro che tutti i leader politici – a partire da Giorgia Meloni ed Elly Schlein – scelgano di stare dalla parte dei ragazzi di Hong Kong e non da quella delle autorità locali che non a caso su indicazioni di Pechino hanno deciso che Hong Kong sia il ponte della partnership strategica tra Cina e Arabia Saudita.

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