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Tocca agli Usa farsi carico del fronte mediorientale. L’analisi dell’amb. Stefanini

In guerra, gli israeliani sanno come difendersi. Ma deterrenza contro l’allargamento del conflitto e diplomazia per il dopo-guerra hanno bisogno di Washington. L’analisi dell’ambasciatore Stefano Stefanini, già rappresentante permanente dell’Italia alla Nato e consigliere diplomatico di Giorgio Napolitano

L’attacco di Hamas ha preso di sorpresa tutti. Tragicamente Israele. Sicuramente gli Stati Uniti e l’Europa. Non era su nessuno schermo. Forse di Teheran che l’ha cavalcato. La sorpresa non ha impedito a Russia e Cina di coglierne immediatamente i possibili ritorni politici, esclusivamente in funzione antioccidentale. Il leader russo Vladimir Putin si è scoperto paladino dello Stato palestinese. Ne aveva mai parlato con altrettanta convinzione nella calorosa frequentazione intrattenuta per anni con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu? Presi alla sprovvista anche i leader arabi, che puntavano alla normalizzazione dei rapporti con Israele, ormai accettato come coinquilino mediorientale sorvolando, di fatto, sull’irrisolta questione palestinese. Non la pensano però così le loro opinioni pubbliche. L’ira della piazza araba, che non crederà mai che sia stato un razzo mal guidato di Jihad islamica a provocare l’eccidio dell’ospedale di al-Ahli a Gaza – è questione di fede non di prove – li costringe a schierarsi verbalmente contro Israele.

L’immediata reazione americana ed europea è stata la stessa: piena solidarietà con Israele. Orrore e condanna di Hamas. A caldo sarebbe stato difficile immaginare qualcosa di diverso. Non hanno però tardato a spuntare differenze, di pensiero e di azione – o di non azione. Gli europei, per lo più, hanno parlato. Gli americani hanno agito. L’Unione europea ha fatto fatica a presentare e conservare una facciata uniforme. A Bruxelles la Commissione si è divisa facendosi beffe di una politica estera comune che non sia quella, pur importante, dell’assistenza economica e umanitaria. Fra l’altro, contraddicendosi. Hanno fatto meglio i singoli leader: europei, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, la presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola; e nazionali, il cancelliere tedesco Olaf Scholz, il primo ministro britannico Rishi Sunak – Brexit o non Brexit, Regno Unito è Europa – hanno dato il segnale chiave della presenza sul campo – in Israele. Con la visita a Riad, Sunak è riuscito anche a centrare l’obiettivo del dialogo con il versante arabo, cui il presidente americano Joe Biden aveva dovuto rinunciare a causa della strage di al-Ahli.

Il peso maggiore dell’inattesa crisi regionale e internazionale è ricaduto sulle spalle degli americani. Come sempre. Che non si sono tirati indietro. Mentre si combatteva ancora per ricacciare Hamas dal territorio israeliano, il segretario di Stato americano Antony Blinken era già in aereo per una spola fra Gerusalemme e le capitali arabe. Washington si trovava di colpo di fronte a emergenze multiple che il successivo ma sempre rapido viaggio lampo di Biden in Israele ha messo in evidenza. Il presidente americano ha cercato di affrontarle insieme, pur nella difficoltà di conciliare pieno sostegno a Israele, diplomazia regionale, sorte dei circa 200 ostaggi nelle mani di Hamas e crisi della popolazione civile di Gaza. Non senza qualche risultato concreto su quest’ultimo fronte – si apre, pur col contagocce, il corridoio egiziano per gli aiuti umanitari a Gaza. Dal quale dipende anche l’arrivo degli aiuti europei.

Si discuterà a lungo del fallimento di intelligence. Israele l’ha pagato carissimo. Il conto finale della guerra con Hamas sarà ancora più alto e lo pagheranno anche i due milioni di palestinesi di Gaza. L’onda d’urto non si ferma fra Israele e Palestina. Rimette in discussione gli schieramenti regionali, in particolare il formarsi di un fronte arabo-israeliano in finzione anti-iraniana. Il resto del mondo, già abbastanza in disordine, vede aprirsi una faglia mediorientale che si aggiunge alle due esistenti, quella nello spazio euro-atlantico, di cui la guerra russo-ucraina è la punta dell’iceberg, e quella nell’Indo-Pacifico attraversato direttamente dalla rivalità globale fra Stati Uniti e Cina. E Washington è trascinata di nuovo nella fossa dei leoni del Medio Oriente da cui cerca di uscire da 15 anni.

Una delle principali conseguenze della guerra scatenata da Hamas è proprio di richiamare bruscamente attenzione, risorse e capitale politico-diplomatico statunitense sullo scacchiere mediorientale. Intendiamoci: gli americani non se ne erano mai andati. Hanno sempre mantenuto una presenza militare importante nel Golfo. L’eliminazione dello Stato islamico è opera loro. Ma pensavano – ed è un filo che corre attraverso tre amministrazioni, Obama, Trump e Biden – che la stabilità regionale e il contenimento dell’Iran potessero essere affidati all’intesa fra Israele e fronte sunnita, cui mancava solo il tassello finale dell’accordo fra Riad e Gerusalemme. La miccia di Hamas ha fatto riesplodere la polveriera israelo-palestinese, aprendo una falla in cui possono fiondarsi Hezbollah e Iran. In guerra, gli israeliani sanno come difendersi anche se questa li mette a rischio di più fronti, come non avveniva da mezzo secolo. Ma deterrenza contro l’allargamento del conflitto e diplomazia per il dopo-guerra hanno bisogno di Washington.

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