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Guerra russo-ucraina, è tempo di decidere. L’analisi del gen. Del Casale

Di Massimiliano Del Casale

A due anni dallo scoppio del conflitto in Ucraina il mondo è a un bivio. Da un lato la Russia non è riuscita ad ottenere i suoi obiettivi iniziali e sta ora affrontando la minaccia di non riuscire a tenere nemmeno i territori occupati. Dall’altro l’Ucraina è allo stremo delle forze e avrà bisogno di maggiore aiuto occidentale per resistere e, eventualmente, vincere la guerra. L’intervento del generale Massimiliano Del Casale, già presidente del Centro alti studi per la Difesa

A due anni di distanza dall’attacco russo al territorio ucraino, è possibile ipotizzare un’uscita dalla crisi? E in che modo?  Gli scontri si sono cristallizzati su un fronte dal quale è difficile progredire. Gli ucraini lamentano carenze nelle scorte, soprattutto di munizioni. Se, infatti, Corea del Nord, Iran e Cina alimentano con continuità l’arsenale russo, forti di un sistema industriale organizzato per la produzione bellica, il sostegno occidentale all’Ucraina dà invece segni di stanchezza. Biden deve fronteggiare il Congresso che blocca gli aiuti militari.

L’Unione europea ha invece liberato altri cinquanta miliardi di euro a favore di Kiev, varando anche il tredicesimo pacchetto di sanzioni contro il governo russo. Ma le difficoltà dell’Occidente sono molteplici. Tutti i paesi, ad esclusione degli Usa, hanno dato fondo alle scorte di ricambi e di munizioni – soprattutto di artiglieria e missili –, al punto da risultare difficile ripristinare i livelli minimi, a causa di bilanci che non tengono conto della “doppia esigenza” e di un sistema industriale che non fa riferimento a un’economia di guerra.

Il 2024 ci dirà molto sul futuro. A giugno, si terranno le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo. Anche se dovesse prevalere una politica più attenta al rispetto delle sovranità statuali dei paesi membri, l’Ue sosterrà sempre Kiev. Ma è anche l’anno delle presidenziali negli Stati Uniti. E sarà, quasi certamente, ancora una volta un confronto tra Donald Trump e Joe Biden. Qualora il presidente uscente dovesse essere confermato, il governo di Kiev potrà ancora contare sul sostegno occidentale e su quello americano, in particolare.

Putin sarebbe indotto a dialogare, di fronte a perdite sempre più pesanti (ad oggi, quelle di Mosca sono stimate in non meno di 120mila morti) e senza aver perseguito tutti gli obiettivi dichiarati: liberazione del Donbass, abbattimento del governo “neonazista” di Zelensky e, non ultimo, conquista militare dell’intera costa del mar Nero, sino al ricongiungimento con la Transnistria, la provincia russofona della Moldavia, dalla quale anche in questi giorni continuano a levarsi invocazioni di intervento della “madre” Russia. Dal canto suo, Trump ha ripetutamente dichiarato che con lui presidente la crisi russo-ucraina terminerebbe nel giro di 24/48 ore, lasciando intendere che non vi sarebbe più spazio per gli aiuti militari a Kiev, senza perdere l’occasione per bacchettare gli alleati che dovrebbero iniziare a badare da soli alla loro Difesa: pura sinfonia alle orecchie di Putin. Un tavolo della trattativa non può aprirsi senza considerare la situazione sul campo.

La Russia fa quadrato attorno al mantenimento dei territori occupati. Rientrare nei confini ante 24 febbraio significherebbe perdere la guerra. Uno smacco gravissimo. Lo stesso Putin vedrebbe minacciato il proprio orizzonte politico e non solo. Di contro, una vittoria russa creerebbe le premesse per una spinta egemonica sia verso i paesi dell’ex Patto di Varsavia, ora nella Nato, a partire dall’area baltica, sia a est, verso gli Stati centroasiatici a forte presenza russofona.

Il tutto, per riaffermare l’autorità di Mosca su un suo spazio post-zarista. Sul fronte ucraino, innanzi al 20% del territorio occupato e a un discontinuo supporto occidentale, ritenere di poter sfondare le linee russe e riguadagnare i confini originari appare velleitario. Negli stessi ambienti occidentali viene da tempo invocata la “pace giusta”, ma nessun leader politico osa più sbilanciarsi definendone i contenuti. Nella recente riunione del G7, tenutasi a Kiev, la presidente Meloni ha ribadito come l’Ucraina sia “un pezzo della nostra casa” e che “faremo la nostra parte per difenderla”, ma gli interrogativi sul futuro degli Stati Uniti e dei rapporti con gli alleati suscitano incertezze.

Macron, assente a Kiev, ha persino ipotizzato un impiego di soldati Nato in Ucraina restando però isolato tra gli alleati. Affermazioni apparse più come un tentativo per recuperare influenza sull’Occidente, avendone persa sulle ex colonie africane. Dopo le armi, ora deve parlare la diplomazia. È importante che Kiev inizi a lavorare per una pace accettabile. Un punto fondamentale è l’eventuale adesione dell’Ucraina alla Nato, considerata dalla Russia una minaccia diretta alla propria sicurezza. Questo non va ignorato, ma può certamente diventare un’opzione nel caso di futuri atteggiamenti ostili verso l’Occidente.

Altro è l’ingresso nella Ue, dato ormai per scontato e persino non escluso da parte russa. Ma quando arriverà il momento, si dovranno verificare tutti quegli indicatori utili a fornire garanzie in termini di democraticità, di lotta alla corruzione e di tutela dei diritti umani nei confronti della popolazione. Non è né semplice né scontato, se solo guardassimo le vicissitudini interne ucraine negli ultimi vent’anni. Certo, la guerra, con le sofferenze che comporta, stende sempre una coltre di oblio. Ma occorre tenere a mente il recente passato e applicare le regole, con coerenza e senza isterismi.

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