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Ecco perché la net neutrality della Fcc non piace nemmeno a Google

“La Fcc ha appena votato per mantenere Internet aperto e libero. Questo è il potere di milioni che fanno sentire la propria voce. Grazie”. Il tweet della Casa Bianca a commento dello storico sì della Federal Communications Commission alle nuove regole sulla net neutrality non potrebbe descrivere meglio il significato di questo voto. Perché se le aziende telco appaiono come le grandi sconfitte, la decisione della Fcc non sembra essere molto gradita nemmeno alla Internet company per eccellenza, Google, teoricamente paladina delle net neutrality e contraria a ogni discriminazione sulla rete attuata dalle telco.

L’ENTUSIASMO DEL MONDO INTERNET

Google per ora non ha rilasciato commenti sul voto della Fcc, limitandosi a parlare tramite la Internet Association, di cui fa parte, che ha salutato con soddisfazione la decisione, ma si è detta “in attesa di osservarne gli esiti” e di leggere l’intero testo che spiega le nuove regole.

Ben diverso l’atteggiamento di un altro grande player di Internet, Netflix, che ha definito le nuove regole una chiara vittoria per i consumatori. “Il dibattito sulla net neutrality ruota intorno allo scegliere chi vince e chi perde online: Internet service provider o consumatori. Oggi, la Fcc ha preso la sua decisione: a vincere sono i consumatori”, ha dichiarato l’azienda del video streaming. “Il voto di oggi è un significativo passo in avanti per assicurare che gli Isp non si comportino in modo sleale a livello di interconnessione con i fornitori di contenuti come Netflix. E’ responsabilità della Fcc garantire che questi punti di interconnessione non siano usati per violare i principi dell’open Internet”.

Il co-fondatore di Reddit Alexis Ohanian ha ringraziato gli utenti dei siti web, soprattutto social, che hanno aiutato a creare consapevolezza nel grande pubblico su che cosa fosse la net neutrality e quanto valesse. La Fcc ha ricevuto 4 milioni di commenti alla sua proposta iniziale in cui apriva le porte ai pagamenti per dare priorità ad alcuni contenuti, scatenando una specie di rivolta popolare contro quello che è stato bollato come l’Internet a due velocità. “Internet ha unito le forze e creato un movimento per proteggere l’Internet aperto”, ha scritto Ohanian.

GOOGLE ROMPE I RANGHI

Google inizialmente era allineata alla visione delle altre aziende hitech sulla net neutrality, ma, col radicalizzarsi della proposta di Wheeler, ha cambiato atteggiamento sostenendo che le nuove regole sarebbero state controproducenti proprio per i gruppi di Internet. Ha così intrapreso un’intensa azione di lobby volta a convincere Wheeler a rivedere i suoi piani; l’executive chairman Eric Schmidt ha addirittura chiamato la Casa Bianca per far sapere che dal suo punto di vista il sostegno dato da Obama alla riclassificazione della banda larga era un errore.

Il nodo sono sempre gli accordi di interconnessione tra i broadband provider e i content provider: in una lettera alla Fcc pubblicata questa settimana, Austin Schlick, director of communications law di Google, ha messo in guardia i regolatori contro i rischi della riclassificazione dei rapporti di interconnessione, o peering, tra aziende, che attualmente sono quasi completamente non regolati. Secondo Schlick, una riclassificazione del peering spingerebbe i fornitori del servizio di banda larga a farsi pagare non solo dai consumatori che ricevono il servizio di accesso a Internet, ma anche dai fornitori di contenuti per il trasporto dei loro dati (una pratica chiamata negli Usa “double recovery”). Tale esito sarebbe una sconfitta per il principio della net neutrality, argomenta Google, e “potrebbe arrecare gravi e duraturi danni al circolo virtuoso dell’innovazione di Internet e così mettere seriamente a rischio ogni beneficio dell’adozione di regole sulla net neutrality”.

Un lobbysta di un’azienda tecnologica della Silicon Valley ha così commentato il “tradimento” di Google: “E’ evidente che non sostiene davvero la net neutrality come si potrebbe pensare”. Secondo le  aziende della Silicon Valley, Google oggi ha un potere enorme di negoziazione con i broadband provider che le garantiscono condizioni vantaggiose nell’interconnessione: se il regolatore si intromette con le sue regole, queste condizioni vantaggiose potrebbero venir meno.

“GOOGLE NON HA DA GUADAGNARE DALLA NEUTRALITY”

Perché Google non la pensa più come le altre Internet companies? E’ semplice, scrive Fortune: Google non è come le altre, è un big al pari delle sue rivali telco. E le alleanze con le altre grandi aziende hanno reso più complicato il suo sostegno, un tempo praticamente incondizionato, all’Internet aperto. Già nel 2010, Google aveva scatenato le proteste delle associazioni dei consumatori tentando di negoziare con Verizon un accordo che avrebbe permesso ai fornitori del servizio Internet di farsi pagare dai fornitori di contenuti come Google per garantire consegna rapida ai loro dati. L’accordo allora non si concretizzò ma è chiaro che Google è disposta anche a pagare (e ha i mezzi per farlo) purché i suoi video, email, ecc. siano trasportati senza alcuna interruzione. Un regime regolatorio aggressivo non può farle comodo. Diverse sono le esigenze delle aziende di Internet più piccole che non hanno soldi da spendere per dare “priorità” ai loro contenuti.

“Più Google diventa un colosso, meno ha da guadagnare dalla net neutrality”, afferma l’inventore stesso del termine, il professore della Columbia Law School Tim Wu. “Molti dicono che la cosa buona della net neutrality è proprio che chiunque dal suo scantinato può far concorrenza a Google”.

Insomma, non si tratterebbe più di telco contro Internet, ma di grandi contro piccoli, che premono per un mercato equo e senza barriere. “La tipica cinica storia che si racconta a Washington è che chi ha i soldi vince”, commenta Wu. “Stavolta non è andata così”.

Male per la lobby di Google ma bene per gli attivisti del digitale, che hanno persino organizzato all’ultimo momento un ballo per festeggiare la loro vittoria sullo strapotere delle corporation a Washington. Che hanno speso 2,78 miliardi di dollari nelle loro lobby l’anno scorso sperando di influire sul processo legislativo – a quanto pare, senza grandi risultati.

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