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Così fu (e sarà) Stato

trilemma
Molti studiosi hanno letto male la cesura del 1989, o quella di dieci anni prima (la vittoria della rivoluzione conservatrice in Gran Bretagna e in Usa, con Thatcher e Reagan). È vero; sono stati spazzati via, dalle potenze del mercato, lo Stato sociale e lo Stato comunista. Ma non è vero che sia stato spazzato via lo Stato in generale, che la sovranità sia stata sostituita dalla governance, che la modernità si sia fatta riflessiva al punto da spoliticizzarsi là dove era politica (nei suoi snodi strategici istituzionali, come i poteri dello Stato) e da ripoliticizzarsi blandamente dove era impolitica (l’agonismo delle soggettività, il rischio diffuso come rumore di fondo della società), così da poter essere gestita con il compromesso, la mitezza, l’orizzontalità relazionale.
 
Ha visto meglio Sassen quando ha fatto dello Stato un permanente fattore di stabilizzazione, in un contesto molto mutato; e hanno visto meglio coloro che hanno continuato a leggere il presente in termini di potere strategico e non solo di flussi relazionali e funzionali. Infatti, quei vittoriosi poteri del mercato avevano una robusta base politica, ovvero esprimevano poteri politici di parte: in altri termini, la deregulation che ha dato origine alla rivoluzione conservatrice degli anni Ottanta ha giovato a qualcuno e ha danneggiato altri, anche per quanto riguarda la proiezione globale di potenza (l’Urss è stata distrutta; gli Stati d’Europa si sono dovuti mettere al passo, facendo nascere la Ue e l’euro, senza pienamente riuscirvi; la Cina e l’India sono emerse come late comer). Inoltre, oggi (nella fase in cui la rivoluzione conservatrice sta esaurendo la sua spinta propulsiva in una crisi mondiale a più fasi, e dall’esito incerto) si capisce che la sovranità politica statuale è una risorsa, anche se non sempre decisiva, proprio per gestire quella crisi, e perfino per farne un’occasione di incremento di potenza.
 
Detto altrimenti: non è vero in generale che la politica deve inchinarsi all’economia, che il giudizio di un’agenzia di rating vale più di un Parlamento, che le troike (i feroci tassametri delle lacrime e del sangue che le manovre spremono dai popoli assoggettati alla dura disciplina del debito) hanno più poteri degli esecutivi, che più delle piazze o dell’opinione pubblica pesano le cancellerie estere, le banche centrali, l’Fmi. Non è vero in generale. È vero solo per gli Stati deboli, dalla struttura sbilanciata, per le economie asfittiche e subalterne; cioè per quegli Stati, e sono la maggioranza, che hanno dovuto operare tagli alla spesa – cioè allo Stato sociale – perché affetti da un debito che (in rapporto al Pil) risulta insostenibile alla luce dei fondamentali dell’economia nella sua interpretazione prevalente.
 
Ma la soggezione a diktat economico-finanziari all’esterno non è il destino di tutti; in modi diversi e con diversa intensità se ne sottraggono, o almeno ci provano, le potenze sovrane di oggi: Usa (che tuttavia sono molto provati da questa crisi), Cina, Giappone, India, Brasile, Germania. In particolare quest’ultima ha trasformato la propria economia in una potente macchina per l’esportazione (comprimendo, ma non in modo insopportabile, i salari dei lavoratori, e conservando il proprio sistema di welfare) e costituisce di fatto, insieme ai suoi Stati-satellite come il Benelux e la Finlandia, e alle sue aree di penetrazione economica, come le repubbliche europee centro-orientali e i Paesi baltici, un sistema sub-continentale, un Grande spazio in qualche misura sovrano, che ha bisogno, per sopravvivere e prosperare, solo di un’area occidentale di libero scambio; neppure della moneta unica.
 
E infatti non accetterà la costruzione di un’Europa politica se non ai suoi patti: essenzialmente, che l’euro sia solido come lo era il marco, ovvero che “prima” della politica gli altri Stati mettano “i propri conti in ordine”. Se non è sovranità questa… È, certamente, in atto una grave deformazione dello Stato nei suoi parametri fondamentali: la paura si fa immediatamente strumento di governo, al di fuori della mediazione istituzionale e legale; la decisione governativa prevale sulla discussione parlamentare; i partiti non sono più i pilastri reali del potere; la cittadinanza è frantumata secondo linee di frattura determinate da ricchezza e povertà. Lo Stato classico, che doveva affrontare la sfida delle guerre civili di religione, quello dell’Ottocento, che portò a compimento l’unificazione politica delle nazioni, e quello del Novecento, che fronteggiò la sfida dell’inclusione delle masse, sono figure politiche del passato. Ora lo Stato ha il proprio orientamento e il proprio destino nell’economia, che nelle sue forme macro (geo-economiche) ha assunto una nuova e intensa configurazione produttivistica e concorrenziale.
 
È questo l’orizzonte dell’epoca. Un orizzonte che non cancella lo Stato – il potere politico organizzato –, né lo rende una sua variabile subalterna; ma che lo sfida. Accettare questa sfida è il dovere politico primario: il dovere di prendere posizione e di produrre ordini efficaci in un contesto mondiale nuovo. Ma, certamente, la sfida si può diversamente interpretare e risolvere. Anzi, in questa differenza sta la politica, con la sua forza decidente e organizzante, o con la sua subalternità – ad esempio, il lavoro può essere gestito come un costo da ridurre, secondo i dogmi del neoliberismo imperante (ma in via di fallimento), ma può anche essere protagonista di una nuova politica che, senza ipotizzare regressi o decrescite, orienta in senso umanistico, con un nuovo piano o un nuovo patto fra produttori, la potenza dell’economia.
 
Naturalmente, la capacità politica è legata, tra l’altro, anche alla scala geografica su cui si affronta la sfida dell’economia. Solo realtà subcontinentali o continentali sono all’altezza della politica, oggi.
Ciò dice qualcosa sulla Germania e sull’Europa; sulla prima come sostituto oppure come incubatrice della seconda – questo dilemma, non ancora sciolto, è il dilemma della sovranità in Europa. Comunque vada a finire, l’esperienza di oggi ci dice, ancora una volta, che la sovranità è l’unico strumento per dare forma alla sfida economica; e che logora chi non ce l’ha.
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