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Vi racconto una storia emblematica sulla lagna italiana per la disoccupazione e la voglia “americana” di futuro

Per chi non lo avesse fatto, suggerisco di recuperare e leggere l’editorialino di Ferragosto di Dario Di Vico sul Corriere della Sera, un pezzo che fa giustizia di alcuni dei più insidiosi luoghi comuni che circolano incontrastati quando si (stra)parla di disoccupazione giovanile.

Di Vico dà conto, citando alcuni episodi, delle difficoltà incontrate da un imprenditore nell’assumere giovani italiani tanto da vedersi costretto a ricorrere quasi interamente a lavoratori stranieri. Le generalizzazioni sono sempre sbagliate, ma è vero che in Italia stentiamo a misurarci con il fenomeno del lavoro rifiutato, sempre che si parta dall’assunto che tutte le forme di impiego, se oneste e regolari, si possono considerare “lavori decenti” (la definizione è dell’OIL), magari in attesa di una migliore opportunità. A chi scrive è capitato di assistere ad una “storia di gente comune” la quale dimostra quanta diversità culturale vi sia tra tanti nostri giovani (le loro famiglie) e i coetanei di altri Paesi.

Di fronte a casa mia un anno fa è venuta ad abitare una famiglia di americani. Da New York City hanno scelto di trasferirsi a Bologna. Il marito (di 42 anni) prima insegnava inglese in Corea del Sud. E faceva la spola da Seul a New York. A Bologna non risiedono per motivi di lavoro. Hanno scelto di vivere in questa città per ragioni di sicurezza, perché, a loro avviso, non si possono allevare serenamente dei figli a New York City o più in generale negli Usa. Il lavoro lo hanno cercato e trovato dopo il loro arrivo in Italia. Sanno l’inglese, la lingua del mondo, e vivono di questa risorsa. Al momento dell’approdo a Bologna avevano tre figli piccoli: la signora ha 32 anni, solo un anno in più dell’età in cui le donne italiane, in media, partoriscono il primo figlio.

I due figli in età scolare sono stati iscritti senza tante storie alla Scuola elementare sotto casa e l’ hanno frequentata con profitto, anche se non sapevano una sola parola della nostra lingua. Nel periodo ‘italiano’ – un anno – i due hanno scodellato una quarta figlia. Così hanno dovuto traslocare, sempre in affitto, in un appartamento più grande. Li aiuta una giovane “tata” polacca che parla correntemente l’inglese. Quando si è avvicinato il momento del parto è venuta dagli States la madre di lei. Non li ho mai sentiti porsi il problema del mutuo o di avere un posto stabile. E non possono contare su di un ricco “zio d’America” perché conducono una vita essenziale.

Dove sta la differenza? La loro è fiducia nel futuro. E in se stessi. Ciò che a noi manca è la responsabilità individuale.

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