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I salari dell’eurozona convergono verso il basso

Conti deposito

E poi dice che non c’è convergenza nell’eurozona. Invece scorrendo gli ultimi dati pubblicati dall’Ocse sull’andamento del costo del lavoro unitario nell’area sembra proprio che una convergenza si stia (faticosamente) realizzando: quella sui salari.

Gli amanti dei cavilli potranno notare che è al ribasso, ma suvvia: sono dettagli.

Il dato aggregato per l’intera area Ocse ci dice che il costo unitario del lavoro (ULCs) è diminuito dello 0,2% nel secondo trimestre del 2013. Ciò risulta dal confronto fra la crescita della produttività registrata (+0,4%) e l’aumento delle retribuzioni (+0,2).

Dobbiamo ricordarci perciò che l’ULCs, almeno come lo misura l’Ocse, misura sempre questo confronto. Ossia che l’aumento delle retribuzioni viene sempre rapportato all’aumento della produttività e il saldo misura lo squilibrio fra queste due grandezze. Se le retribuzioni salgono più della produttività c’è un aumento netto del costo unitario del lavoro, che significa che i lavoratori hanno guadagnato più di quanto hanno prodotto. Al contrario se le retribuzioni crescono meno.

Tenere a mente questa differenza è importante. Nel primo caso si è avuto uno spostamento di ricchezza dalla quota dei profitti a quella del lavoro. Nel secondo caso il contrario.

Detto in parole povere, se le retribuzioni crescono meno della produttività significa che i le imprese hanno guadagnato di più.

L’Ocse specifica che un aumento dei costo del lavoro “può creare una pressione sui prezzi alla produzione”. Quindi, per logica, una sua diminuizione può creare la pressione opposta: quella verso il calo dei prezzi, ossia una deflazione.

Tutto questo viene sottinteso nel dibattito o viene dato per scontato. Ma è un errore. Prima di parlare di numeri sarebbe utile capire di cosa stiamo parlando esattamente e le variabili sistemiche che portano con sé. Sennò come si fa a capire le scelte politiche che implicano?

Detto ciò guardiamo i dati.

E cominciamo da casa nostra. Per la prima volta dall’ultimo trimestre del 2011 il costo unitario del lavoro è diminuito nell’eurozona (-0,3%). Nel periodo considerato, infatti, si è avuto un incremento di produttività dello 0,4% e un aumento delle retribuzioni dello 0,1%, “significativamente più basso dello 0,9 del precedente trimestre”.

Tenete a mente le date: ultimo trimestre 2011. Da noi in quel periodo cambiava il governo, mentre la crisi nei Pigs (ora Gipsi) imbruttiva.

All’interno dell’aeuro area, scrive l’Ocse, “il costo unitario del lavoro ha continuato ad aggiustarsi in alcuni paesi”. In Italia è crollato dello 0,7% “per la prima volta in sei trimestri”. Questo a fronte di un zero tondo segnato sul versante dell’aumento di produttività.

Dall’altra parte del mondo, quindi in Germania, si è registrato un aumento della produttività dello 0,6% a fronte di un aumento delle retribuzioni dello 0,5, quindi il saldo è negativo per lo 0,1%. Se vediamo invece il dato del Portogallo vediamo che c’è stato una diminuizione del costo unitario dello 0,9% a fronte di un calo delle retribuzioni dell 0,6 e di un aumento della produttività dello 0,3. Il calo più robusto del costo unitario europeo, tuttavia, è stato registrato in Norvegia: -2,6%. Peggio (per i lavoratori) è andata solo in Corea del Sud (-2,8%).

Ma i dati trimestrali ci dicono poco.

Il discorso si fa più interessante se spostiamo lo sguardo sul trend, che l’Ocse fotografa a partire dal secondo trimestre del 2010.

Nell’eurozona presa nel suo complesso, l’indice (100 nel secondo trimestre 2010) ha segnato una crescita fino all’ultimo trimestre 2012, quando ha iniziato a deflettere.

Ma ovviamente le situazioni nei singoli paesi sono molto diverse.

In Belgio, ad esempio, il costo unitario del lavoro sta continuando a crescere da allora, e adesso quota quasi 110. Altrettanto in Austria, pure se più moderatamente (circa 105), più o meno al livello della Germania e dell’Olanda, che si trovano poco sopra il livello della Francia, mentre Finalndia e Lussemburgo svettano sopra 110.

Se andiamo a vedere i paesi perfierici, troviamo la Grecia, dove la rilevazione si ferma al secondo trimestre 2011, quando la curva, robustamente orientata al ribasso, era già scesa sotto 100. In Irlanda l’indice gravita intorno a 95, mentre in Italia la crescita del costo unitario si è interrotta a fine 2012 (quota 105) e da allora ha iniziato a sua flessione.

Fra i Pigs la Spagna è quella che ha subito la diminuzione più marcata del costo unitario, ormai stabilmente sotto 95, col Portogallo poco sopra. in Slovenia e Slovacchia il costo è fermo a quota 100.

Guardando le curve, si nota che l’aumento più corposo è stato quella della Norvegia, dove alla fine del primo trimestre 2013 l’indice quotava oltre 115, quindi il calo registrato nell’ultimo trimestre lo ha semplicemente riportato sotto 115.

Ma il grafico che dà la misura esatta di quello che sta succedendo è quello che illustra l’andamento del costo del lavoro nei principali paesi dell’euro a far data dal 1999.

Fatto 100 l’indice del primo trimestre 1999, notiamo che in Germania l’indice è sceso sotto quota 100 fra il primo trimestre 2006 e il 2008.

Il costo unitario si impenna fra l’inizio del 2008 e il 2009 e poi rimane stabile fino al 2012, quando riprende moderatamente a salire. Ora quota circa 110. Quindi in 14 anni l’indice del costo unitario del lavoro tedesco è cresciuto di un risicato 10%. Ciò dimostra con chiarezza che la Germania ha spostato ricchezza dai salari ai profitti nell’ultimo decennio.

Gli altri paesi considerati hanno fatto il contrario. La Francia, ad esempio, mostra un andamento crescente della curva, che ora quota quasi 130. Ma anche l’Italia, dove l’indice quota quasi 135, anche se adesso la curva mostra segnali di robusta inversione.

Ma è molto interessante vedere cosa sia successo nei Pigs.

L’Irlanda, che nel 2009 mostrava la crescita più alta dell’ULCs (quota 155), nel 2013 è crollata intorno a quota circa 125. Proprio come la Spagna, che nel 2009 era seconda per costi unitari (circa 140), e il Portogallo, che era allo stesso livello della Spagna nel 2009. In questi tre paesi la convergenza sui costi unitari del lavoro è stata piena.

Quelli che ancora devono converge sono l’Italia e la Francia. Ma i presupposti ci sono tutti. In Italia la crescita della disoccupazione è un ottimo viatico per raffreddare il costo del lavoro, e la Francia è alle prese con una riforma del lavoro problematica ma che potrebbe dare buoni risultati.

La domanda però è un’altra: a che livello si dovrebbe realizzare questa convergenza?

Se paragoniamo il livello della Germania (circa 110), con quello al momento più alto (Italia a 135) notiamo quanto sia ampia la forbice fra i due paesi. In Germania la tendenza dei salari è alla crescita, a differenza di quanto accade negli altri paesi, quindi è ragionevole ipotizzare che l’incontro potrebbe trovarsi, in un contesto inerziale, al livello attuale dei Pigs, quindi fra 120 e 125.

Quindi Francia e Italia sono i paesi che possono aspettarsi la correzione più robusto dell’ULCs.

A meno che, ovviamente, la disoccupazione, trainata al ribasso dalla crisi, non peggiori.

Nel qual caso il conto sarà più salato.

Per tutti.

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