Skip to main content

La guerriglia grillina di Renzi a Napolitano

Matteo Renzi, ad una settimana dalle primarie che dovrebbero portarlo alla segreteria del Pd e dalla successiva “verifica” che lo aspetta con Enrico Letta, deve essersi perso il conto delle sue sfide. In una intervista concessa a La Repubblica  – quella forse più autentica, dell’editore Carlo De Benedetti più che del fondatore Eugenio Scalfari –  ha acceso troppi fuochi per poterne uscire indenne.

Il sindaco di Firenze ha intimato al presidente del Consiglio di accettare praticamente la sua agenda e basta, senza tenere in minimo conto Angelino Alfano, l’alleato di centrodestra rimastogli, e decisivo, dopo l’uscita della rinata Forza Italia dalla maggioranza. Un alleato liquidato da Renzi come una specie di soprammobile perché i suoi “trenta deputati” sarebbero niente contro “i trecento” del Pd. E verrebbero “asfaltati” dal pur decaduto Silvio Berlusconi in caso di elezioni anticipate, che diventerebbero lo sbocco inevitabile di una crisi. Ancor più inevitabile se qualcuno, evidentemente anche Giorgio Napolitano, di cui è arcinota la contrarietà al ricorso alle urne senza riforme, almeno quella della legge elettorale, riuscisse a “spaccare” i gruppi parlamentari del Pd sulla linea di fuoco del nuovo segretario.

Messe le cose in questi termini sbrigativi, con una concezione brutale dei rapporti politici, basata solo sui numeri parlamentari, dimenticando peraltro con scandalosa disinvoltura che i tanto vantati “trecento deputati” del Pd sono stati conquistati solo con il 25 per cento dei voti grazie alla porcata di legge elettorale in vigore, Renzi ha lanciato la principale delle sue varie, troppe sfide proprio al presidente della Repubblica. Del quale egli ha dimenticato le prerogative costituzionali e i moniti più volte lanciati ai partiti.

Le prerogative costituzionali sono quelle dell’articolo 88. Che assegna solo al capo dello Stato il potere, testuale, di “sciogliere le Camere, o anche una sola di esse”, alla sola condizione di “sentire i loro Presidenti”. Sentirli e basta.

I moniti sono quelli che Giorgio Napolitano lanciò sin dal discorso pronunciato alle Camere il 22 aprile, dopo la sua rielezione. Quando definì “regressione il fatto che in Italia si sia diffusa una sorta di orrore per ogni ipotesi di intese, alleanze, mediazioni, convergenze tra forze politiche diverse”, anche in condizioni di emergenza economica, sociale e politica quali erano allora e sono rimaste.  E sentì “il dovere di essere franco” per avvertire, tra gli “applausi” riportati nel resoconto stenografico della seduta parlamentare: “Se mi troverò di nuovo dinanzi a sordità come quelle contro cui ho cozzato nel passato, non esiterò a trarne le conseguenze dinanzi al Paese”. Cioè, a dimettersi e a riaprire in Parlamento il problema della successione al vertice dello Stato. Problema al quale le Camere elette a fine febbraio non avevano saputo  rispondere, tanto da mandare al Quirinale delegazioni di partiti e amministrazioni regionali a chiedere al suo inquilino di disfare i bagagli del trasloco ed accettare la rielezione: la prima di un capo dello Stato uscente nei 67 anni di storia della Repubblica.

Quell’avvertimento solenne e duro risulta che sia stato ribadito nei giorni scorsi da Napolitano in molti degli incontri e colloqui, ufficiali e riservati, da lui avuti in previsione della verifica politica e parlamentare che attende il presidente del Consiglio dopo il passaggio di Forza Italia all’opposizione.

Le dimissioni del capo dello Stato e i conseguenti adempimenti parlamentari e politici potrebbero tradursi nell’affondamento di Renzi come nuovo segretario del Pd. Un affondamento peggiore di quello di Pier Luigi Bersani. Potrebbe poco dopo mancare a Renzi anche la rielezione a sindaco di Firenze, da lui così spavaldamente – al solito – messa nel conto della sua stagione di sfide, in un crescendo di ambizioni che, forse con preveggenza, fu definito “devastante” nella primavera scorsa da Franco Marini: il co-fondatore post-democristiano del Pd, con la componente post-comunista, sgambettato sulla strada del Quirinale aveva anche con la dissidenza, pur a distanza fisica, di Renzi. Che non era riuscito ad entrare fra i “grandi elettori” del presidente della Repubblica neppure come delegato regionale, quale avrebbe voluto essere designato dal Consiglio regionale, appunto, della Toscana, pur non facendone peraltro parte.

Gli effetti delle sfide lanciate o rilanciate da Renzi dalle colonne de La Repubblica non si sono lasciati certamente attendere: tutti rovinosi per il quadro politico, ma anche per lui e per il partito che dovrebbe guidare. Da Forza Italia gli è venuto, con Raffaele Fitto, il ringraziamento per la liquidazione programmata del Nuovo Centrodestra di Alfano. Dal suo principale concorrente alla segreteria del Pd, Gianni Cuperlo, è arrivata la segnalazione di un maggiore rischio di spaccatura del partito. E da Beppe Grillo un altro vaffa a Napolitano condito di impeachment, coerente con l’indifferenza, se non ostilità, opposta dal sindaco di Firenze alla linea e alle preoccupazioni del presidente della Repubblica.

CONDIVIDI SU:

Gallerie fotografiche correlate

Exit mobile version