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Chi sono i prof. anti euro che hanno ispirato la frizzante economia Usa

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class Editori pubblichiamo l’articolo di Tino Oldani, apparso sul quotidiano Italia Oggi.

Ma chi sono i sette premi Nobel che sono convinti che l’euro non funziona? L’economista Paolo Savona vi ha fatto un rapido accenno nel corso di un recente convegno (vedi ItaliaOggi di martedì 22 luglio), aggiungendo che, se l’economia va male e l’euro è sopravvalutato, è evidente che c’è qualcosa di sbagliato nell’architettura della moneta europea. Una tesi semplice, difficile da smentire.
Ma perché, chiedono alcuni lettori, non dire anche i nomi dei sette Nobel? Una domanda giusta. Spero che lo sia anche la risposta.

In ordine cronologico, i primi a prendere le distanze dall’euro sono stati, nel marzo 2012, cinque premi Nobel per l’economia, i quali insieme ad altri studiosi americani inviarono al presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, un appello perché si rifiutasse di imitare il Fiscal compact europeo, inserendo il pareggio di bilancio nella Costituzione americana, come suggerivano di fare i neoliberisti Usa.

Ecco i loro nomi: Kenneth Arrow (Nobel nel 1972), Robert Solow (1987), William Sharpe (1990), Eric Maskin (2007) e Peter Diamond (2010). Obama seguì il loro consiglio, ed è grazie anche a quella scelta, unita al «quantitative easing» della Fed, che gli Stati Uniti hanno superato la grave crisi iniziata nel 2008, con una ripresa accompagnata da una diffusa reindustrializzazione e dall’aumento dei posti di lavoro. Gli altri due economisti euro-scettici sono Joseph Stiglitz (Nobel 2001) e Paul Krugman (2008): il primo è stato capo dei consiglieri economici di Bill Clinton, mentre Krugman è tra i suggeritori più ascoltati da Obama.

Tutti e sette, pur con le dovute distinzioni, sono considerati seguaci delle teorie keynesiane e ispiratori dell’attuale politica economica della Casa Bianca. Un breve ripasso delle loro tesi può essere utile a molti, soprattutto al premier Matteo Renzi, che riassume in sé una contraddizione di fondo, tipica dell’ala filoamericana del Pd: mentre si dichiara ammiratore di Obama, in realtà esegue alla lettera i «compiti a casa» della signora Merkel, che sono esattamente l’opposto della politica Usa. Basta leggere alcuni passi dell’appello dei cinque Nobel per averne la prova.

Dal testo integrale, pubblicato sul sito keynesblog.com, ecco i passaggi chiave: «È vero che gli Stati Uniti sono alle prese con gravi problemi sul fronte dei conti pubblici, ma inserire nella Costituzione il vincolo di pareggio del bilancio rappresenterebbe una scelta politica estremamente improvvida. Aggiungere ulteriori restrizioni, quale un tetto rigido alla spesa pubblica, non farebbe che peggiorare le cose».

Più avanti, ecco un consiglio che in Usa ha fatto breccia, aiutando la ripresa dell’economia, mentre in Europa è rimasto inascoltato, con le conseguenze note: «Un emendamento sul pareggio di bilancio avrebbe effetti perversi in caso di recessione. Nei momenti di difficoltà economica, diminuisce il gettito fiscale e aumentano alcune spese, tra cui i sussidi di disoccupazione. Questi ammortizzatori sociali fanno aumentare il deficit, ma limitano la contrazione del reddito disponibile e del potere di acquisto. Chiudere ogni anno il bilancio in pareggio aggraverebbe le eventuali recessioni».

I governi Monti e Letta hanno fatto proprio questo, seguiti ora da Renzi. Ancora: «Il vincolo del pareggio di bilancio impedirebbe al Governo federale di ricorrere al credito per finanziare il costo delle infrastrutture, dell’istruzione, di ricerca e sviluppo, della tutela dell’ambiente e di altri investimenti vitali per il futuro benessere della nazione…» «Anche nei periodi di crescita economica un tetto rigido di spesa potrebbe danneggiare la crescita, perché gli incrementi degli investimenti ad elevata remunerazione, anche quelli interamente finanziati dall’aumento del gettito fiscale, sarebbero ritenuti incostituzionali, se non controbilanciati da riduzioni della spesa di pari importo».

Infine, due suggerimenti chiave, rispetto ai quali in Europa e in Italia si è fatto esattamente l’opposto: «Nessun altro paese importante ostacola la propria economia con il vincolo del pareggio di bilancio. Non c’è alcuna necessità di mettere al paese una camicia di forza economica…. Nell’attuale fase dell’economia è pericoloso tentare di riportare il bilancio in pareggio troppo rapidamente. I grossi tagli di spesa e/o gli incrementi della pressione fiscale necessari per raggiungere questo scopo danneggerebbero la ripresa, già di per sé debole».

Quanto a Stiglitz e Krugman, hanno criticato l’euro e la politica Ue di austerità talmente tante volte, che c’è solo l’imbarazzo della scelta. Stiglitz: «L’Unione europea ha fatto un unico, grande errore: l’euro, che non ha funzionato. La Troika (Fmi, Bce e Ue) ha ripetutamente prodotto previsioni errate, e piuttosto che ammetterlo e riconoscere i suoi errori, ha sempre incolpato le sue vittime. Se i miei studenti avessero prodotto delle analisi come quelle della Troika per i Paesi europei, li avrei bocciati». Perché l’Europa si salvi, deve cambiare molte cose: «Anzitutto il mandato della Bce, che non deve concentrarsi solo sull’inflazione, ma anche su crescita e occupazione», come fa la Fed Usa.

Se il reddito pro capite in Europa è oggi a livelli inferiori rispetto all’inizio della crisi, tranne che in Germania, per Stiglitz si deve «ai difetti di fabbrica dell’euro, una moneta sbagliata, senza politica e senza Stato, collegata a un’ideologia sbagliata, come quella di tenere un euro forte per combattere l’inflazione». Obiettivo mancato, visto che dilaga la deflazione. Per Krugman, che è anche un brillante polemista, è il nostro Paese a rischiare la sorte peggiore: «Adottando l’euro, l’Italia si è ridotta a una nazione del Terzo mondo, che deve prendere in prestito una moneta straniera, con tutti i danni che ciò implica».

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