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Gabbie salariali e il laburismo in salsa padana

Cinque anni fa, proprio in questi giorni, la Lega di Umberto Bossi proponeva il ripristino delle “gabbie salariali” (rivalutate da Beppe Grillo sul suo blog nei mesi scorsi). Introdotte nel 1945 attraverso un accordo interconfederale tra la Cgil unitaria e le associazioni padronali, furono abolite nel 1969. L’accordo divideva il territorio nazionale in 14 zone (dimezzate nel 1961), in cui il differenziale tra i salari era legato al costo della vita ( con un range massimo del 29 per cento, successivamente ridotto al 20).

L’idea della Lega fu duramente osteggiata dalle forze sociali e dalle opposizioni. Inoltre, non avendo trovato i consensi necessari nello stesso governo Berlusconi, venne presto gettata alle ortiche. La vicenda è stata rievocata da Michele Ainis in un articolo pubblicato il 7 settembre sul supplemento culturale del Corriere della Sera.

Le considerazioni del costituzionalista sono commendevoli, ma il titolo dell’articolo (“Le gabbie salariali fanno bene all’uguaglianza”) è assai infelice. Infatti, le gabbie erano un meccanismo istituzionale di contrattazione altamente centralizzato. Le stesse differenze tra le varie aree salariali erano rigide, stabilite a priori, non legate alle condizioni dei diversi mercati del lavoro.

Ribadito che l’autonomia negoziale delle parti sociali non può essere surrogata da nessun dirigismo legislativo, a mio giudizio sarebbe tuttavia sbagliato escludere pregiudizialmente il livello territoriale dalla mappa delle diversità salariali, che è poi anche la geografia dell’equità distributiva.

Se non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che i salari possono catturare i guadagni di produttività solo nell’impresa, dove è misurabile l’apporto del lavoro, non mi pare irragionevole immaginare la salvaguardia del potere d’acquisto su un duplice piano. Quello del contratto nazionale -che garantisce un trattamento universale (ma sarebbe ora di sostituirlo con l’introduzione del salario minimo)- e quello integrativo di carattere locale, laddove si manifesta un costo della vita particolarmente elevato.

So che questa ipotesi si presta a controdeduzioni, la prima delle quali riguarda la difficoltà o addirittura l’impossibilità, come ci ammoniva il grande economista inglese Alfred Marshall, di misurare con esattezza il potere d’acquisto della retribuzione. Ma il prossimo dibattito sul Job Act non mancherà di fornirci l’occasione per tornarci sopra.

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