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Che differenza c’è tra l’alluvione del 1970 e quello del 2014?

Angelo Novus - Klee

Delle immagini dei danni prodotti dalle piogge intense che si sono abbattute sul Nord Ovest, in particolare sulla Liguria, una mi ha colpito più delle altre: il crollo della parete del cimitero di Bolzaneto, vicino al capoluogo ligure, a causa del quale alcune bare e resti di defunti sono finiti trascinati dalla violenza del Polcevera in piena. Della città, il maltempo, lo straripare di Natura, aveva colpito uno dei suoi luoghi più sacri: il cimitero.
Nel 1970, sempre a Genova, intense precipitazioni nella prima settimana di Ottobre, allora come oggi, scaricarono una quantità d’acqua in pochissime ore al punto da sommergere la riviera da Ponente a Levante senza risparmiare niente e nessuno. Anche allora ci furono dei morti. Anche allora furono tantissimi i danni. In quella circostanza a crollare fu una parete del cosiddetto Biscione. Il complesso edilizio di Forte Quezzi costruito negli anni 50 nell’ambito del “piano Ina-casa” promosso dal Governo. Un complesso la cui architettura s’ispirava all’idea di Le Corbusier, pensata per Algeri, ma mai realizzata, di un contenitore che potesse, minimizzando i costi di realizzazione, perseguire l’ideale di offrire un tetto per tutti. Una città quartiere di 4500 persone!

Secondo una certa corrente di pensiero, i danni provocati dalle piogge di questi giorni sarebbero da attribuire alla cattiva manutenzione del territorio e alle politiche che hanno favorito un’edilizia sfrenata sebbene, storicamente, sia assai difficile individuare precise correlazioni tra le due cose. Perfino i condoni edilizi, quelli dell’85 e del 94 ad esempio, che hanno legittimato e incentivato il proliferare di costruzioni abusive in barba a qualsiasi piano regolatore, in barba al più ovvio buon senso, non trovano correlazione con i danni dovuti alle piogge così intense e che del tutto imprevedibilmente si abbattono sul nostro paese.
La domanda è: esiste una connessione tra le due pareti crollate: quella del Biscione nel 1970 e quella di Bolzaneto oggi?
La risposta è sì. Mentre fenomeni di precipitazione intensa tornano periodicamente a ripetersi con la stessa furia in ragione di fenomeni di scala meteorologica globale, il tessuto antropologico delle comunità dei nostri territori è stato, nel frattempo, modificato ineluttabilmente. Le città, dal primo dopoguerra in avanti, sono cresciute troppo rapidamente e, col passare del tempo, le borgate, che ospitavano le popolazioni che vivevano immediatamente fuori dalle mura cittadine, sono state sostituite dalle periferie. Le periferie, poi, sono cresciute, “piano casa” dopo “piano casa”, facendo delle città una somma di periferie. Certo, c’erano delle esigenze da soddisfare. Bisognava dare ricovero a masse d’inurbati che venivano dalle campagne e dal Sud con la speranza di lavorare nelle fabbriche e conquistare un maggior livello di emancipazione rispetto a quello che avrebbero potuto ottenere continuando a lavorare la terra. La politica di quegli anni, in mano alla sinistra DC, governò i fenomeni d’immigrazione (Sud – Nord) attraverso il ricorso a un approccio paternalistico e per nulla liberale. Fu lo Stato a istituire il programma di edilizia popolare. E dove non ci fu l’intervento dello Stato, ci pensarono i privati a realizzare delle costruzioni di grande dimensione dove, in appartamenti realizzati con materiali scadenti, le più elementari forme d’intimità non erano rispettate. Pensate agli enormi complessi di Via Artom a Torino.
Gli odori delle borgate, gli aromi di selvaggio che venivano dall’erbetta fresca bagnata di rugiada lasciavano il posto alle “puzze”. Quelle delle fabbriche, dello smog.
I punti di riferimento della borgata: il cinema, la balera, il reticolo di vicoli dove bambini e mamme vociavano facendosi comunità e quindi tessuto fitto di punto croce erano stati cancellati dall’avanzare dell’edilizia a buon mercato. La cancellazione di un sistema di valori, quelli propri di un quartiere, di una singola comunità, finiva con l’essere omogeneizzato. A quei cittadini fu reso sgradevole il trascorrere del tempo nel loro quartiere che diventava mero dormitorio.

Qui a La Rustica nun c’era niente, tutto fango, niente. Mi ricordo che ero giovanotto e andavamo a Tor Sapienza, c’era un cinemetto , oppure andavamo a ballà [..]

A Tor Sapienza, a Roma, cittadini italiani mostrano tutta la loro esasperazione e la loro rabbia per una difficile convivenza con rom e immigrati all’interno di un alveare di degrado qual è l’ex borgata ora ridotta a estrema periferia.

Per strada tante facce/non hanno un bel colore,/qui chi non terrorizza/si ammala di terrore (F. De André)

Ecco, dunque, la differenza tra la Genova martoriata, quella del 1970, e quella di questi giorni. Ecco la differenza tra le due Italie e le due comunità. La prima, a parità di danni subiti, a parità di classe dirigente, è un’Italia che sa essere ancora comunità, è capace di compattarsi di fronte alle difficoltà. Più coesa. Che era abituata a vivere nel fango della terra della campagna appena fuori le mura. Che a Bologna, per dire, nella zona di Zola Predosa ne ha fatto pure questione di opportunità imprenditoriale. La Maccaferri s’inventò il gabbione che arginò il Reno.
Che sa discernere tra i valori fondanti della propria identità e quelli effimeri imposti dalla società di massa.
Quella di oggi è un’Italia smarrita, disorientata. Dove la classe media e con lei le classi più umili sono confinate in periferie che le abbrutiscono. Gli individui sono sempre più incapaci di relazionarsi tra loro. L’idea di fare di ogni luogo della città una casa, come un boomerang, si è capovolta nel suo paradossale inverso: nel non sentirsi a casa in nessun luogo. Il governo dell’edilizia, asse economico comunque necessario come motore dello sviluppo economico di un paese, non è stato attenta nel salvaguardare le identità locali, di ogni quartiere, di ogni borgata. E in ossequio al dictat capitalistico ha asfaltato pietre, tombe, perfino i dettagli più sacri della memoria collettiva che teneva legati gli individui che erano vissuti in borgata senza mai andare una volta in città. Lì, appena dietro le mura.

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