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Come si combatte culturalmente il Califfato

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class Editori, pubblichiamo l’analisi di Gianfranco Morra uscita oggi sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi.

Correre in aiuto dei popoli oppressi, combattere e anche dare la vita. L’Europa ci è abituata. All’inizio dell’Ottocento, la Grecia cercò di liberarsi dai turchi. Aiutata dalle nazioni europee, ottenne l’indipendenza. Era l’epoca del romanticismo, del quale uno dei miti era appunto la Grecia classica. Non pochi intellettuali dell’epoca corsero a sostenerla e un grande pittore come Delacroix diffuse lo sdegno per le stragi dei turchi, a Scio e Missolungi. Generosità, moda e ricerca dell’avventura, certo, come nel più noto, Lord Byron, che di combattimenti non ne fece, ma vi morì di meningite. Per non dire di Santorre di Santarosa, caduto a Sfacteria. A fine secolo corsero a combattere i garibaldini e a Domokòs morì Antonio Fratti.

Anche oggi non pochi, col crescente sostegno dei follower su twitter, lasciano l’Occidente per combattere. Non più contro l’Islam, ma per sostenere la nascita di un grande Califfato. Migliaia di giovani si sono arruolati sotto la bandiera nera dell’Isis: Cia, Onu e Ue, allarmate, parlano parla di 20-30 mila «foreign fighters» di 80 paesi diversi. Spinti dal danaro? Non sembra. Sono pronti ad atti di estrema crudeltà, come il cittadino britannico che decapita gli ostaggi. Senza paura di morire. Solo il 20% sono figli di immigrati, che non si sono mai integrati. La maggior parte di loro sono occidentali convertiti. E non solo partono, ma anche ritornano, sempre più indottrinati e addestrati, per fare terrorismo contro la loro patria. Perché? Dire che si tratta di giovani fanatici o pazzi è solo una banale consolazione.

In realtà questi neofiti islamici sono mossi da qualcosa di più profondo e le dichiarazioni di alcuni l’hanno mostrato. L’ostaggio americano Peter Kassig, decapitato l’altro giorno dall’Isis, ha dichiarato di «morire sereno» perché si era convertito all’Islam. Tutti ritengono che l’Occidente non sia più in grado di indicare ai suoi giovani un senso della vita. Sono insoddisfatti per una religione che avrebbe «tradito» la sua vocazione per continuare ad avere successo in un mondo ormai privo di soprannaturale. Nel passato famosi europei si erano convertiti all’Islam: come lo scrittore René Guénon, che voltò le spalle all’Europa, dove la volgare quantità aveva distrutto la qualità dello spirito; o come il filosofo, prima cristiano poi comunista e infine musulmano, Roger Garaudy. Ma le conversioni attuali sono molto più indicative. In primo luogo perché avvengono in una sola direzione. Rari gli islamici convertiti al cristianesimo, sempre più nel senso contrario.

Ogni religione nasce «forte» e «intransigente». Anche quella di Gesù: «Vi è stato detto, ma io vi dico; tutti fanno così, ma voi no; chi non è con me, è contro di me; la vostra parola sia: sì, sì, oppure: no, no; non sono venuto per portare la pace, ma la spada». Non c’è religione senza «fanatismo»: la parola deriva da «fanum», tempio; i «fanatici» sono gli uomini dentro il tempio; gli altri sono profani (da pro-fanum, ciò che sta davanti e fuori). Con tutti i pericoli che ciò comporta: intolleranza, conflitto, lotta; ma anche con tutti i vantaggi: la religione mi fa essere qualcuno e mi offre un luogo comune con gli altri. E poche religioni sono «forti» come l’Islam, definita «della maestà e dell’umiltà» (van der Leeuw), in quanto tutto è mosso e tende verso la Potenza infinita, che prescrive ogni atto dell’esistenza.

La religione cristiana è diversa. Essa ha sempre sostenuto la distinzione tra religione e politica (Dio e Cesare), aprendo così la strada ad una libertà di coscienza, che si è tradotta nella tolleranza religiosa e nelle grandi costruzioni del diritto naturale e di quello internazionale (Alberico Gentili e Grozio). Inevitabilmente, piano piano, si sono ridotti gli obblighi dell’appartenenza. Ne fa dunque parte una certa secolarizzazione, anche se solo nel secolo appena finito ha prodotto una religione debole e fragile, intimista e privata, estranea alle istituzioni e liquida. Nella quale il dogma non conta, anzi viene accusato di astrattezza, il rito è alla carta e la condotta morale soggettiva. I convertiti vogliono invece norme morali forti e imperative: come appunto la sharía.

Contrariamente alle facili previsioni delle scienze umane, in Occidente la religione non finita, ma si è a tal punto indebolita che deve cercare un accordo e un appoggio nei poteri forti della nostra epoca: i mass-media, le ideologie relativiste e naturaliste, il narcisismo antropologico, la fiction televisiva, il sentimentalismo buonista. Al limite può divenire l’appendice decorativa di una società irreligiosa, che non la combatte più, in quanto può inserirla docilmente nel proprio pantheon di ideologie.

I giovani occidentali che si battono per l’Islam cercano quello che ogni religione ha sempre dato: la salvezza ultraterrena, ma anche quelle identità personale e solidarietà sociale, che in Occidente non è facile trovare. L’islamismo ancora le offre, in termini crudeli e funesti, senza dubbio inaccettabili. I suoi movimenti «partigiani» ripropongono, in forma esasperata e crudele, la guerra santa contro gli «infedeli»: il cristiano «Occuperemo Gerusalemme» di crociati si è capovolto nell’«Occuperemo Roma» dell’Isis. Con ogni mezzo. Per potersi difendere, occorre capirlo.

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