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Le scivolate di Laura Boldrini su Renzi e Jobs Act

Anche se Matteo Renzi, blindato nella sua certezza di durare sino alla fine della legislatura, ha voluto sottrarsi personalmente alla polemica, lasciandola sviluppare da amici e colleghi di governo e di partito come il sottosegretario Graziano Delrio e i vice segretari Lorenzo Guerini e Debora Serracchiani, al presidente della Repubblica non può essere sfuggito il clamoroso attacco sferrato al presidente del Consiglio dalla presidente della Camera Laura Boldrini. Che lo ha accusato di sentirsi e di essere “un uomo solo al comando, contro tutti e in barba a tutto” per non avere voluto recepire le modifiche proposte dalle competenti commissioni parlamentari ai decreti delegati per la riforma del mercato del lavoro: quella nota come jobs act.

Eppure la presidente della Camera sa bene che in questi casi i pareri parlamentari sono obbligatori ma non vincolanti, per cui il governo ha il sacrosanto diritto costituzionale e politico di non attenervisi, senza che per questo il pur esuberante presidente del Consiglio possa essere praticamente accusato di dispotismo.

Il “contro tutti e in barba a tutto” gridato dalla presidente della Camera a Renzi, in sintonia con le opposizioni e con la minoranza dissidente del Pd, è smentito dall’articolo 94 della Costituzione: quello che disciplina i rapporti fra il Governo, con la maiuscola, e le Camere. Ciascuna delle quali “accorda o revoca la fiducia mediante mozione motivata e votata per appello nominale”.

Se le opposizioni di destra e di sinistra, curiosamente unite alla minoranza dissidente del Pd nella protesta contro la nuova disciplina delle assunzioni, dei licenziamenti e di altro ancora, sono davvero convinte di avere ragione e di essere più forti, specie dopo la sponda offerta loro dalla presidente della Camera, possono promuovere una mozione di sfiducia. Che, “firmata da almeno un decimo dei componenti” dell’assemblea, “non può essere messa in discussione prima di tre giorni dalla sua presentazione”.

Tutto il resto è polemica sterile, per quanto condotta in prima persona addirittura dal presidente di Montecitorio. Che dovrebbe essere neutrale, anche se non mancano purtroppo precedenti di segno contrario: dal giudizio liquidatorio sul secondo e già pericolante governo di Romano Prodi espresso nel 2007 dall’allora presidente della Camera Fausto Bertinotti, leader di riferimento di uno dei partiti della maggioranza, all’offensiva dichiarata contro l’ultimo governo di Silvio Berlusconi, nell’autunno del 2010, dall’allora presidente della Camera Gianfranco Fini. Nel cui ufficio si riunirono amici di partito ed esponenti dell’opposizione per predisporre la mozione di sfiducia che poi non passò nell’aula di Montecitorio, senza che Fini avvertisse neppure di fronte a un simile infortunio l’opportunità di dimettersi.

Questi precedenti potrebbero anche alleviare l’impatto della sortita di Laura Boldrini contro Renzi, che stride tuttavia con il ruolo distaccato di arbitro ribadito da Mattarella per sé, ma valido anche per un presidente di assemblea parlamentare, nel discorso pronunciato il 3 febbraio scorso, appena dopo avere giurato come presidente della Repubblica.

“Nel linguaggio corrente – disse testualmente Mattarella nell’aula di Montecitorio fra gli applausi generali, compreso quello della presidente della Camera che gli sedeva accanto – si è soliti tradurre il compito del Capo dello Stato nel ruolo di un arbitro, di garante della Costituzione. E’ un’immagine efficace. All’arbitro compete la puntuale applicazione delle regole. L’arbitro deve essere e sarà imparziale. I giocatori lo aiutino con la loro correttezza”.

E’ francamente difficile considerare “corretta”, appunto, la reazione di Laura Boldrini nella sua veste di presidente della Camera al legittimo esercizio delle prerogative del governo. Il fischietto dell’arbitro, al Quirinale, non si è sentito, si spera solo a causa di qualche vento che ne ha dirottato il suono e ha dato perciò l’impressione di “un silenzio che rimbomba come un tuono”, per ripetere l’espressione appena usata da Michele Ainis sul Corriere della Sera per commentare, in verità, non lo scontro fra i vertici di Montecitorio e di Palazzo Chigi ma, più in generale, il mancato ricorso, sino ad ora, del nuovo presidente della Repubblica al “potere di esternazione” persino “logorroica” esercitato da almeno alcuni dei suoi predecessori.

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